Loro rimangono lì
I bambini che fanno la V con le dita nelle foto dal fronte, e l’illusione che galleggino sempre sopra la guerra
Ma come si fa a lavorare con tutti questi bambini che spuntano da ogni dove, questa dovrebbe essere una zona di guerra, ci dovrebbero essere omoni sfatti in tuta mimetica e nastri di mitragliatrice a tracolla che si muovono in un’atmosfera da Full Metal Jacket e invece sembra un kindergarten: chissà che genere di foto e video porto indietro da qui. E' il pensiero – blasfemo – che viene quando lavori in Siria o in Iraq o in Libia, che sono tutti paesi in guerra – con diverse intensità – da almeno sei anni. Gli uomini con i fucili e le inquadrature li troverai lo stesso, ma basta mettere piede fuori dall’automobile e li vedi: i bambini, a gruppi di cinque almeno. E loro vedono te. Le statistiche dicono che nel mondo arabo la metà della popolazione ha meno di 25 anni, le avevo lette ma lì prendono vita e mi gironzolano intorno e mi guardano e a me fa ancora più impressione perché vengo da Genova (in Liguria dove l’età media è 110 anni). I bambini non dovrebbero essere lì, ma ci sono. I soldati americani in Iraq facevano sempre caso ai piccoli perché erano il perfetto indicatore di pericolo, finché giocavano in strada allora tutto bene ma se sparivano c’era da aspettarsi un attacco dei guerriglieri da un momento all’altro, sono sensori sensibilissimi. Come in quei documentari del National Geographic in cui vedi prima gli uccelli che si alzano in volo dal folto dell’erba e soltanto all’ultimo vedi sbucare il leopardo. Attenzione, vale anche il contrario: ci sono storie terribili di bambini sguinzagliati e premiati dallo Stato islamico come informatori, che andavano a riferire persino i fatti di casa , “lo zio beve, lo zio parla male dell’Isis”. Un po’ utili e un po’ un problema, i bambini, ma non serio quanto l’altro problema degli inviati al fronte – quelli che fanno la V di vittoria e ridono quando li inquadri. Tutti i giornalisti hanno decine di ore di video nel cassetto che non possono pubblicare perché a un certo punto qualcuno ha fatto V in camera. Una volta durante l’attraversamento di un terreno scoperto insieme con un gruppo di ribelli – una grande scena epica di guerriglieri in fila indiana che camminano veloci con le armi in pugno – uno si è addirittura messo a fare l’aeroplanino come Montella il calciatore e non gli si poteva nemmeno gridare di smettere, la la arjuk habibi – no dai ti prego – perché sennò qualcuno poteva sentire. Buttato via tutto. Siate sempre tristi per favore. E tenete i figli chiusi in casa.
Quando passi veloce dentro i mezzi blindati vicino Mosul i bambini si sbracciano dai terrapieni a lato della strada, fanno la V, i miliziani sciiti rispondono ai saluti, poi si girano verso di te e dicono qualcosa che si può tradurre: “Che paraculi”. Due settimane fa salutavano i convogli dell’Isis, ora festeggiano l’esercito. Cos’altro potrebbero fare? I bambini quando vedono i giornalisti possono reagire in due modi, ci sono quelli baldanzosi che si fanno sotto e quelli che ti squadrano abbarbicati al cancello di ferro o alla sorella più grande. Vorresti parlare a quelli della seconda categoria, i più timidi, ma intanto i più coraggiosi ti chiedono di fargli una foto e poi gliela fai vedere sullo schermo digitale e fai schermo con le mani per coprire la luce del sole e quando alzi gli occhi di nuovo sono decuplicati. Due strade più in là ci può essere la guerra, gente che si spara da un tetto all’altro, ma due strade in qua ci sono un venditore aperto e bambini fuori di casa che giocano. E viene un senso di ritegno a pensare che quando tornerai ti daranno una pacca sulla spalla, “sei tornato da una zona di guerra”, e quei bambini che riempiono centinaia di foto nella tua macchina restano piantati lì dove li hai incontrati, giocano e mangiano e continuano a fare quello che stavano facendo. Il guaio è che alla fine la guerra c’è sul serio. C’è l’imbecille che prende il bambino e gli mette un kalashnikov fra le mani e ti dice “facci una foto assieme” e tu pensi “sei un imbecille”, però la fai lo stesso perché sei in un posto dove non puoi rischiare di aprire uno scontro in strada. E il bello è che l’uomo pensa di avere fatto una cosa fiera, eroica e bella, “questo bambino prenderà il mio posto quando io non ci sarò più”, se sapesse che a due ore di volo da lì sono foto disgustose, un fucile d’assalto sproporzionato tenuto troppo in basso da mani piccole.
Anni fa mi sono fermato in un posto in Siria che si chiama Hass, un pugno di case nella campagna, è sbucato il comitato d’accoglienza infantile di curiosi. Poi il 26 ottobre 2016 ho visto nelle notizie che c’era stato un raid aereo a Hass, aveva colpito la scuola elementare durante l’orario delle lezioni, ventidue bambini e sei maestri morti, le foto sono finite su Twitter. Sono matematicamente sicuro di avere le immagini di quei bambini nell’archivio delle foto che avevo scattato, ma non ho mai controllato. L’illusione che i bambini scampino per miracolo e siano così leggeri da galleggiare sopra la guerra e non essere presi sotto è, appunto, un’illusione. Di recente in Iraq mi hanno portato a una fossa comune, diciotto corpi avvolti nelle coperte (ma diciannove morti perché una donna era incinta, ha detto un anziano della famiglia che era lì) aspettavano stesi vicino a un bulldozer che stava scavando la terra. I parenti avevano deciso per la fossa comune che non potevano fare tombe singole. Tutti uccisi dalla stessa esplosione, non si sa se dello Stato islamico o degli aerei. Appena i familiari hanno visto le macchine fotografiche, hanno alzato di colpo i lembi di una coperta, c’era una bambina di non più di otto anni, capelli ricci, tutta annerita. Vedi i segni dell’esplosione? Poi quando provi a proporre le immagini ai media rispondono che non mettono foto di morti, figurarsi di bambini uccisi. Però ci sono. E quando vedi i telegiornali che parlano dell’attacco con armi chimiche in Siria, e dicono “ottantadue morti, trenta sono bambini”, pensi: “Certo. Non poteva che andare così. Trenta, più di un terzo”.