La sala dei Musei Capitolini dove fu firmato il Trattato di Roma nel 1957

Quel che si capisce dell'Ue dall'ultima bozza sul vertice di Roma

David Carretta

Le peripezie dell'ultima bozza della dichiarazione che il Foglio ha potuto consultare illustrano la distanza tra l’establishment dell’Ue e i neoeuropeisti

Bruxelles. L’establishment dell’Unione europea che si ritroverà sabato a Roma per festeggiare i 60 anni dalla firma dei trattati appare ancora troppo timoroso per darsi un’agenda post populista coerente e ambiziosa. La dichiarazione sul futuro dell’Ue dopo la Brexit, che i capi di stato e di governo dovrebbero firmare a Roma, manca di proposte ambiziose. “E’ un testo per fare dire di sì a tutti”, spiega al Foglio un diplomatico coinvolto nei negoziati sulla dichiarazione di Roma: il documento “è stato troppo annacquato per essere all’altezza delle sfide” che deve fronteggiare l’Europa. “La dichiarazione non è così buona se si vuole parlare ai cittadini”, conferma un ambasciatore di un paese dell’est. Che si tratti dell’Europa a più velocità, dell’Europa sociale o dell’Europa della Difesa – tutti elementi accennati nella dichiarazione, ma senza impegni precisi – i 27 che resteranno dopo la Brexit sono divisi. E lo sono ancor di più quando si tratta di questioni politicamente più controverse, come l’approfondimento della zona euro o la solidarietà nella crisi dei migranti. I capi di stato e di governo sono ostaggi della loro stessa retorica anti bruxellese, che ha preparato il terreno ai populisti anti europei.

 

Il primo ministro greco, Alexis Tsipras, è stato il protagonista dell’ultimo tentativo di sequestrare il futuro dell’Europa. Nella riunione di lunedì degli sherpa dei 27, la Grecia ha posto la riserva sulla dichiarazione di Roma. Ufficialmente Atene vuole aggiungere una frase sugli “acquis (i diritti, ndr) sociali e del lavoro” che dovrebbero essere rispettati in tutti gli stati membri. In realtà, Tsipras spera di forzare la mano dei creditori europei sulle riforme richieste. Prima del premier greco era stata la Polonia di Lech Kaczynski a minacciare il veto contro un passaggio della dichiarazione di Roma in cui i 27 si impegnavano ad andare avanti uniti “ogni volta che è possibile”, ma a lanciarsi a velocità differenziate “laddove è necessario”. Gli sherpa sono stati costretti a limare il testo, ridimensionando l’idea di un’Europa a più velocità, per ottenere il via libera di Varsavia e di altre capitali dell’est. “Agiremo insieme, a velocità e intensità diverse dove necessario, muovendosi nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e mantenendo la porta aperta a quelli che vogliono unirsi più tardi”, dice l’ultima versione della dichiarazione di Roma che il Foglio ha potuto consultare. L’Italia, che puntava a lanciare il cantiere dell’Europa sociale, ha ottenuto la menzione che chiedeva, ma ha dovuto rinunciare a ogni ipotesi di armonizzazione, accettando di “tenere conto della diversità dei sistemi nazionali”.

 

Le peripezie della dichiarazione di Roma illustrano la distanza tra l’establishment dell’Ue e i neoeuropeisti. L’analisi dei mali che colpiscono l’Europa è simile. “L’Ue ha di fronte sfide senza precedenti, sia globali sia interne: conflitti regionali, terrorismo, pressioni migratorie crescenti, protezionismo e disuguaglianze economiche e sociali”, dice il testo della dichiarazione. L’unità europea è al contempo “una necessità e una nostra libera scelta. Presi individualmente saremmo spinti ai margini dalle dinamiche globali. Restare insieme è la nostra migliore chance di influenzarle”. Ma l’Agenda di Roma su cui i leader promettono di lavorare – un’Europa sicura, un’Europa prospera, un’Europa sociale, un’Europa più forte sulla scena globale – rimane da riempire di contenuti. “Fino alla fine del ciclo elettorale che si è aperto con l’Olanda e si chiuderà con l’Italia, passando per Francia e Germania, prevarrà lo status quo”, prevede un altro diplomatico. La Commissione lancerà nei prossimi tre mesi una serie di documenti di riflessione. Ma il balzo federalista – quello invocato dai neoeuropeisti che ogni fine settimana manifestano a favore dell’Ue o quello predicato dal presidente della Bce Mario Draghi per la zona euro – dovrà attendere.

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