Il muro al confine tra Stati Uniti e Messico (foto LaPresse)

Oltre il muro

Trump firma la più simbolica delle sue promesse. La barriera con il Messico lascia questioni aperte

New York. La costruzione del muro al confine con il Messico inizierà “il prima possibile”, ha detto ieri Donald Trump, è una “questione di mesi”, ma il piano per la realizzazione della più simbolica fra le promesse elettorali inizierà “immediatamente”. La differenza fra quanto Trump ha ripetuto ossessivamente per mesi è che la generica espressione “large physical barrier” ha sostituito l’univoco termine “muro”, parte dell’adeguamento linguistico e politico che naturalmente avviene nel passaggio al governo. Già nella veste di presidente eletto aveva concesso che in alcuni tratti di un confine lungo 3.145 chilometri sarà una rete, e non necessariamente un muro fatto di mattoni o cemento. Come Trump ha sempre detto, sarà il Messico a pagare “in un modo o nell’altro” per un’opera faraonica che promette sicurezza per gli Stati Uniti ma anche per uno stato confinante “che vogliamo sia stabile”. Il ministro degli Esteri messicano è a Washington per preparare la visita del presidente, Enrique Peña Nieto, e i provvedimenti sul confine si intrecciano con la promessa di rinegoziare il Nafta, tema delicatissimo per i rapporti fra i due stati. Il ministero dell’Economia messicano ha già fatto sapere che si alzerà dal tavolo delle trattative commerciali se Trump andrà avanti con la costruzione del muro. Nonostante le smentite che arrivano da Città del Messico, il presidente americano continua a sostenere che il conto non peserà sul contribuente americano, che tutt’al più dovrà anticipare il costo dell’operazione – le stime parlano di una decina di miliardi di dollari – ma certamente sarà rimborsato. Come? “Ci sono modi anche molto complicati” di avere una contropartita, ha detto Trump nella prima intervista alla Casa Bianca, concessa alla Abc. E perché Nieto insiste che il Messico non sborserà un centesimo? “Lo dice perché lo deve dire”, ha detto il presidente.

Al dipartimento della Sicurezza nazionale, dove ieri il generale John Kelly ha prestato giuramento, Trump ha firmato due ordini esecutivi sull’immigrazione: uno riguarda il muro, l’altro le pesanti restrizioni per i visti impartite a una lista di paesi a maggioranza musulmana legati al terrorismo. Quest’ultimo decreto è quello più gravido di conseguenze, ma nella logica dello show trumpiano il muro supera ogni altra decisione politica. La Casa Bianca ha detto che la costruzione della barriera sul confine sarà accompagnata da una “espansione degli spazi di detenzione per chi viola il confine”, iniziativa che dovrebbe semplificare ed accelerare le operazioni di rimpatrio dei clandestini. Inoltre, l’Amministrazione “toglierà i fondi federali per le città-santuario”, quelle che proteggono i clandestini. Si tratta di misure accessorie tese a consolidare e a rendere più convincente per l’elettorato un’operazione fumosa nei suoi aspetti pratici. Dopo aver abbandonato la promessa surreale di rimpatriare gli undici milioni di clandestini che vivono in America, Trump ha detto che si concentrerà sui due o tre milioni che hanno commesso reati, un numero in linea con quanto fatto dall’Amministrazione Obama.

Due milioni e settecentomila immigrati illegali sono stati rispediti fuori dai confini, il 90 per cento di questi aveva la fedina penale sporca. Il passaggio dalla solidità del muro all’ambigua liquidità della “large physical barrier” è un altro fattore rilevante. Se lo si intende nel suo senso più ampio, il muro c’è già. Per poco meno di mille chilometri è coperto da una qualche forma di cancellata: ora è un’imponente struttura di metallo, ora un cancello con le sbarre, in altri punti è una rete rigida a maglie strette, altrove è protetto da strutture metalliche in cosiddetto stile “Normandia”. Dove non c’è una barriera architettonica, il confine è sorvegliato dal “muro virtuale”, un sistema di radar, sensori e droni che intercetta i movimenti di persone e merci. Questo senza contare le centinaia di chilometri in cui canyon, fiumi e asperità naturali varie rendono impossibile, oltre che inutile, la costruzione di una barriera in muratura. 

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