(foto LaPresse)

Perché Israele è contro la conferenza di Parigi sul medio oriente

Daniel Mosseri

Una fonte vicina al governo ci spiega perché boicottare il meeting francese che potrebbe diventare un processo a Gerusalemme

Berlino. “Un’iniziativa controproducente. Quello di cui il mondo, noi e i palestinesi abbiamo bisogno è tutt’altro: e cioè il ritorno a negoziati diretti e senza precondizioni”. Israele non partecipa alla Conferenza di pace per il medio oriente organizzata domenica 15 a Parigi dal governo francese. Al Foglio una fonte vicina al governo di Gerusalemme ha spiegato le non poche ragioni della decisione. Che non è ideologica: nella storia recente dello stato ebraico la partecipazione a forum internazionali sul medio oriente non è un tabù. Al contrario, il formato inaugurato nel 1991 con la conferenza di pace di Madrid ha portato in quattro anni alla ratifica del trattato di pace fra Israele e la Giordania. Da Madrid il negoziato diretto si trasferì in segreto a Oslo, sfociando nella creazione dell’Autorità palestinese (Ap) e la suddivisione di Gaza e West Bank in tre zone a diversi livelli di cogestione fra israeliani e palestinesi. Ancora nel 2007 le due parti sedevano una di fronte all’altra alla Conferenza di Annapolis, voluta da Condoleezza Rice. “Chiunque ci abbia portato a un tavolo negoziale, egiziani, giordani o americani, ci ha fatto parlare direttamente gli uni con gli altri”. Ma se il presidente palestinese Mahmoud Abbas non è cambiato dal 2005, a cambiare è stata la sua strategia.

Oggi l’Ap punta alla creazione di uno stato palestinese non con il negoziato ma a suon di raccomandazioni dell’Onu. “A Parigi ci saranno una 70ina di paesi; nel migliore dei casi molti di questi non hanno nulla a che vedere con il conflitto israelo-palestinese; nel peggiore, hanno invece interesse a che il problema non sia risolto”. Il governo Netanyahu non salva nulla dell’appuntamento voluto dal Quai d’Orsay. La stessa scelta di Parigi, tradizionalmente vicina al mondo arabo, avvalora la tesi della pace imposta dall’alto. Anche i tempi dell’appuntamento sono considerati sbagliati: la conferenza si tiene cinque giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Per l’America ci sarà il segretario di stato uscente John Kerry – reduce da uno scontro verbale all’arma bianca con il premier Netanyahu – “ma per noi l’opinione dell’Amministrazione entrante resta di grande importanza”.

Israele teme un processo e una sentenza di condanna sulla falsariga di quelle ciclicamente comminate dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu. “Oggi è invece tempo che il mondo si rivolga ai palestinesi dicendo: se volete la pace dovete tornare al tavolo con Israele, riconoscerlo come stato ebraico e mettere fine alla propaganda d’odio” che informa le attività in arabo dell’Ap, dai programmi scolastici in poi. E’ la stessa risoluzione 242 dell’Onu, ricorda ancora la fonte, a chiedere che lo stato palestinese sia fondato su relazioni pacifiche con Israele: “Diversamente vuol dire che stai preparando una nuova guerra”. Gerusalemme respinge anche l’accusa di minare la pace con la politica degli insediamenti. “Non dobbiamo dimostrare a nessuno che siamo pronti al compromesso: abbiamo restituito il Sinai all’Egitto, siamo usciti dalla Striscia di Gaza. Quello che ci manca è un partner per la pace. Nel 2009 abbiamo congelato gli insediamenti per dieci mesi ma Abbas non è tornato al tavolo lo stesso”. Rafforzata dai successi diplomatici all’Unesco e all’Onu, l’Ap chiede che l’espansione israeliana nella West Bank sia stralciata dal negoziato e bloccata dall’esterno. Per Israele, invece, gli insediamenti sono con i profughi, i confini e Gerusalemme “solo una delle questioni sulle quali dobbiamo discutere. Insieme”. 

Di più su questi argomenti: