Donald Trump (foto LaPresse)

E se Trump avesse una strategia sulla Cina?

Eugenio Cau

Una politica dura contro Pechino e orientata verso la difesa di Taiwan è in fieri da mesi, e non solo nelle dichiarazioni di The Donald contro la concorrenza sleale e la manipolazione della valuta da parte di Pechino

Roma. La telefonata tra Donald Trump e il presidente di Taiwan Tsai Ing-wen non è stata la gaffe pasticciona di un presidente eletto digiuno di politica estera e ipersensibile alle lusinghe, anche quando queste vengono da un alleato con cui Washington intrattiene una relazione militare ma con cui ha interrotto le relazioni diplomatiche fin dal 1979. Sempre più indizi mostrano che la telefonata fuori protocollo che ha sorpreso e irritato la Cina – che considera Taiwan come una provincia che presto tornerà alla madrepatria e reagisce irata contro chi legittima il piccolo stato insulare – è stata quanto meno un atto deliberato. Una politica dura contro la Cina e orientata verso la difesa di Taiwan era in fieri da mesi, e non solo nelle dichiarazioni (spesso errate) contro la concorrenza sleale e la manipolazione della valuta da parte di Pechino che Trump ha pronunciato nel corso di tutta la campagna elettorale. Alcuni dei principali collaboratori di Trump, a partire dal futuro capo di gabinetto, Rience Priebus, sono conosciuti come critici di Pechino e partigiani di Taiwan.

In un saggio molto citato apparso all’inizio di novembre su Foreign Policy, i due consiglieri di Trump sulla politica estera e l’economia, Peter Navarro e Alexander Gray, definivano Taiwan come un “faro della democrazia” in Asia. Parole simili erano già state riprese dalla piattaforma programmatica del Partito repubblicano espressa alla convention di luglio a Cleveland, insieme a dure critiche nei confronti della Cina che Trump ha voluto inserire come “priorità personale”. Soprattutto, ieri il Washington Post ha sentito alcuni collaboratori del presidente eletto e di Tsai Ing-wen, che hanno confermato che la telefonata è stata il frutto di “mesi di preparazione sottotraccia”. Già a pochi giorni dalla vittoria alle presidenziali, Taipei era nella lista delle capitali con cui Trump avrebbe comunicato, e alcuni consiglieri del team di transizione hanno detto al WaPo che sono state fatte riunioni per studiare le conseguenze della telefonata.

La versione ufficiale data dal team Trump è che il presidente eletto avrebbe semplicemente risposto alla chiamata della sua controparte taiwanese, ma tanta impreparazione è difficile da immaginare perfino per Trump. Alex Huang, portavoce di Tsai, ha detto che “ovviamente” la telefonata era stata preparata con ampio anticipo da entrambe le parti – e a Pechino questo lo hanno capito perfettamente, anche se la risposta diplomatica cinese continua a fare leva sull’inesperienza del presidente eletto. Insomma, la gaffe di Trump è in realtà un colpo deciso ancorché simbolico contro Pechino, ed è facile immaginare che i cinesi, che della simbologia del potere sono i maestri da millenni, adesso stiano riprendendo le misure al presidente eletto. Parlando a Isaac Stone Fish su Foreign Policy, un alto funzionario cinese diceva con sicurezza prima della elezioni americane: “Sappiamo gestire Trump”. L’idea generale era che il palazzinaro di New York, una volta eletto presidente, sarebbe stato malleabile e prono all’adulazione. Queste convinzioni potrebbero essere ancora valide, ma nell’attesa che Trump sveli la sua dottrina in politica estera, se mai ne avrà una, Pechino deve iniziare anche a valutare una seconda ipotesi: che il nuovo presidente americano voglia modificare la politica tradizionale di coesistenza pacifica tra le potenze e iniziare un confronto molto più diretto, non solo sul terreno del commercio e dei dazi. Una questione importante, infatti, è che il primo scontro tra Trump e Pechino non si gioca sul terreno dell’economia, ma della democrazia della piccola enclave taiwanese – ed è facile immaginare che se, a parti invertite, il presidente eletto Hillary Clinton avesse fatto una telefonata simile ora applaudiremmo il coraggio del falco dem che sfida Pechino. Ma con Trump il sospetto che la difesa di Taiwan sia un semplice pretesto di sfida non può essere debellato. In questi giorni, le telefonate di gran cordialità con autocrati o governanti ben poco democratici, dal pachistano Sharif al filippino Duterte, si sono sprecate.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.