Un uomo cammina per Wall Street (foto LaPresse)

Oggi riparte la disfida sulla crescita americana (sottotono). Ragioni per essere ottimisti

Marco Valerio Lo Prete
L’instabilità elettorale destinata a svanire. Archiviata la fisiologica dose di volatilità finanziaria, l’America tornerà a confrontarsi con il problema “crescita”. Problema? In realtà il pil degli Stati Uniti è in aumento dal 2009, a un tasso inimmaginabile per gli standard europei. Ricette fiduciose su imprenditorialità e occupazione.

Roma. Non esiste un’elezione che sia identica a un’altra, ma la maggior parte degli analisti ritiene che ieri sera negli Stati Uniti, come accade ogni quattro anni nel martedì successivo al primo lunedì del mese di novembre, sia stato toccato il consueto picco massimo dell’incertezza politica e quindi sui mercati. Nei prossimi mesi, sempre stando ai precedenti storici, tale tensione è destinata a svanire lentamente. Dopodiché, nel nuovo assetto politico tra Casa Bianca e maggioranza al Congresso, l’America tornerà a confrontarsi con gli enigmi che rimangono irrisolti, pur nel contesto di una ripresa già avviata nel 2009: il livello di crescita dell’economia – da numerosi analisti giudicato troppo basso per gli standard a stelle e strisce – e il suo impatto su imprese e mercato del lavoro.

 

Ieri il Wall Street Journal sintetizzava così gli effetti reali dell’incertezza che gli Stati Uniti si starebbero per lasciare alle spalle: “Quest’anno, mentre il mercato del lavoro si è ripreso in maniera essenzialmente stabile e i salari sono aumentati, le imprese hanno ridotto gli investimenti e il mercato azionario è calato del 5 per cento da agosto a oggi”. Il rapporto prezzo/utili dell’indice S&P 500, cioè di un paniere azionario formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione, scende tipicamente nel lungo rush finale della campagna presidenziale, questa volta durato almeno tre mesi per la Borsa, e in media torna al suo andamento originario sei mesi dopo il voto. Di solito occorrono invece nove mesi affinché torni a chiudersi il gap tra titoli di stato e titoli azionari che si amplia alla vigilia delle urne in ragione dei dubbi sul futuro del settore corporate. “Anche nell’anno dei candidati più impopolari di sempre e in tempi di profonda polarizzazione tra visioni del paese così diverse, ci sono ragioni per ritenere che questa tendenza rimarrà valida”, scrive il quotidiano finanziario americano. Specie nel caso in cui Congresso e Casa Bianca saranno di diverso colore politico, perché ciò renderebbe improbabili cambiamenti radicali o avventati.

 

Archiviata la fisiologica dose di volatilità finanziaria, l’America tornerà a confrontarsi con il problema “crescita”. Problema? In realtà il pil degli Stati Uniti è in aumento dal 2009, a un tasso di poco superiore al 2 per cento. Un miraggio per gli standard italiani ed europei, ovvio. Ma molto al di sotto del 3,6 per cento di crescita media cui ci aveva abituato la prima economia del pianeta nella seconda metà del Ventesimo secolo. Gli effetti sull’occupazione sono quelli più discussi nel confronto pubblico: a ottobre negli Stati Uniti sono stati creati altri 161.000 posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è al 4,9 per cento, cioè più basso rispetto alla vigilia delle ultime tre elezioni (2004, 2008, 2012). Soltanto lo scorso anno, il reddito reale delle famiglie è salito del 5,2 per cento. E’ questo tipo di dati ad aver spinto alcuni pensatoi liberal, come il Progressive Policy Institute, a sostenere nelle ultime settimane che la candidata Hillary Clinton sarebbe stata troppo timida nel rivendicare i risultati di otto anni di presidenza democratica. Altre statistiche del mercato del lavoro, però, devono aver consigliato una certa prudenza.

 

Il tasso di partecipazione alla forza lavoro, che misura le persone attive nel mercato, è infatti al 62,8 per cento, decisamente più basso del 66 per cento delle elezioni del 2004 o delle successive tornate elettorali. Il candidato repubblicano Trump ha battuto a lungo su questo dato negativo, ripetendo che ci sono oltre 94 milioni di cittadini americani (su 324,8 milioni) che hanno più di 15 anni d’età ma sono senza impiego. Un dato che pare destinato ad aumentare, non soltanto per le relative défaillance della crescita, in ragione dell’aumento della popolazione e soprattutto del suo invecchiamento. A meno, ovviamente, di radicali inversioni di rotta nel ritmo con cui vengono creati posti di lavoro. Per il momento una svolta simile non è all’orizzonte, anzi la percentuale di startup – da intendersi come imprese con meno di un anno di vita, le stesse che negli anni 80 e 90 avevano contribuito in maniera robusta alla creazione di lavoro – dopo la crisi è scesa all’8 per cento del totale delle imprese, dal 12 per cento degli anni 80.

 

Subito dopo la recessione del 2007-’08, sia la politica monetaria sia quella fiscale sono entrate in modalità “interventista” in America. Dopo otto anni, la politica monetaria sembra aver fatto tutto il possibile e anzi un aumento dei tassi si avvicina (forse già a dicembre). Molti occhi sono puntati sulla politica fiscale, ma qui le correnti di pensiero sono radicalmente diverse tra loro. Jason Furman, già consigliere del presidente Barack Obama, ha parlato di una “New View”, un nuovo modo di intendere la politica fiscale come una sorta di stimolo permanente e come fattore di innovazione. I teorici della “stagnazione secolare”, lamentando bassa crescita e investimenti privati tiepidi, puntano all’ingrosso in quella stessa direzione: tra loro ci sono personalità come Larry Summers e Paul Krugman. Secondo Gavyn Davies, del Financial Times, la Clinton è la più sensibile a questa scuola di pensiero favorevole a un nuovo tassa-e-spendi, anche se è pur vero che l’ex presidente e marito Bill è passato alla storia come un risanatore di conti pubblici. Il repubblicano Trump, secondo Davies, in campagna elettorale ha sì puntato tutto su importanti tagli di tasse, ma senza annunciare corrispondenti tagli di spesa, “un approccio simile a quello di Ronald Reagan”, quindi elaborando di fatto “una versione estrema della New View”. Un’altra campana ancora diversa è quella offerta ieri da John H. Cochrane sul Wall Street Journal.

 

L’economista liberista ha criticato “i soloni esperti di policy che hanno detto per otto anni ‘oggi è il momento dello stimolo, le riforme strutturali si faranno domani’. Oggi è arrivato ‘domani’, ma ecco nuove scuse per un altro stimolo fiscale. ‘Stagnazione secolare’, ‘isteresi’”. Queste le espressioni un po’ glamour ripetute da economisti pessimisti, ragiona Cochrane, e in qualche modo troppo vicini al potere politico consolidato. Lui invece consiglia di agire sulle tasse (meno esenzioni e aliquote più basse in modo da avere più chiarezza per il contribuente e maggiore gettito per lo stato), sulla regolamentazione (da ridurre nella quantità, da valutare in maniera obbligatoria nei suoi effetti e da rendere appellabile per cittadini e imprese di fronte a una corte), sulla Sanità (preferendo un sistema di voucher alla costosa Obamacare) e sul commercio (“impoverire la Cina non aiuterà l’America”). Da oggi c’è spazio, insomma, per essere più ottimisti in America. Solo a volerlo.

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