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L'Unesco, l'internazionale della menzogna

Giulio Meotti
All’ombra della Torre Eiffel, dittatori e antisemiti si sono impadroniti dell’Unesco. Benvenuti nel carrozzone delle turpitudini e della menzogna, dove Israele è un paria. Continuate a inviarci i vostri messaggi per l'Unesco e per il governo italiano a [email protected]

Roma. “Qui si attaccano i valori fondamentali dell’occidente, i princìpi dei diritti individuali vengono degradati in favore di nebulosi diritti dei popoli”, disse Jean Gerard, ambasciatrice americana all’Unesco, nell’annunciare nel 1984 l’uscita degli Stati Uniti dall’agenzia Onu per la cultura. La scorsa settimana, l’Unesco ha negato pure i diritti dei popoli. Quelli del popolo ebraico. L’Unesco ha appena cancellato tremila anni di storia ebraica di Gerusalemme. Per dirla con il quotidiano Haaretz, “è il giorno in cui l’Onu ha degradato il sito ebraico più importante al mondo al rango di una stalla”. E’ una risoluzione così inaccettabile che lo stesso direttore dell’Unesco, Irina Bokova, e il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, hanno ritenuto di doversi dissociare. Dire che la collina sopra la città vecchia di Gerusalemme non è il Monte del Tempio ma “al Aqsa Mosque - al Haram al Sharif” e che il Kotel HaMahariv, il muro occidentale costruito da Erode e che gli occidentali chiamano Muro del Pianto, è “al Buraq Plaza”, significa che la più alta istanza mondiale della conoscenza ha incorporato la posizione estremista nell’islam per cui non c’è mai stato nessun Tempio a Gerusalemme. Rispetto a quando la signora Gerard tenne quel discorso, poco è cambiato all’Unesco. Oggi nel board siedono 58 paesi membri. Di questi, secondo l’organizzazione non governativa Freedom House, 20 sono “parzialmente liberi”, 15 sono “non liberi” e soltanto 23 “liberi”. Dittature e autocrazie dominano la commissione mondiale delle idee. Sono loro a brandire quella che la Heritage Foundation ha definito “la cultura come arma di propaganda antioccidentale”.

 

Perché mercoledì 19 ottobre, alle 15, trasformeremo la sede dell’Unesco a Roma nel nostro Muro del Pianto

 


Il direttore dell'Unesco Irina Bokova (foto LaPresse)


 

Quando Pier Luigi Nervi, Marcel Breuer e Bernard Zehrfuss disegnarono il palazzo in cemento e vetro dell’Unesco a Place de Fontenoy e Pablo Picasso gli regalò gli affreschi, tutti agognavano la rinascita della cultura occidentale dopo la guerra, la Shoah e gli incubi nazisti. Fu uno sfoggio di illuminismo per scrollarsi di dosso un passato cupo. “L’Unesco è il trampolino dell’umanità”, proclamavano i funzionari arrivando a Parigi. Mai altrove si erano sentite ripetere tante volte al giorno, e con tanta veemenza, parole come “educazione”, “scienza”, “cultura”, “libertà”, “pace”, “diritto”, “fratellanza”. Il futuro doveva essere migliore. Salvo poi che, nelle parole di Jean-François Revel che si scagliò contro questa “internazionale della menzogna”, “l’Unesco, la cui missione originaria era diffondere l’educazione, la scienza e la cultura, ha invertito il corso della sua funzione facendo pensare al ‘1984’ di Orwell e al suo Ministero della Verità, il cui compito reale era quello di diffondere la menzogna”.

 

Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati soltanto nel 1997 e gli Stati Uniti nel 2002. Dopo diciotto anni di assenza. L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi settant’anni di vita. La sua greppia è imbarazzante.
Il sessanta per cento del bilancio finisce in stipendi, e in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto persino l’ottanta per cento. Il principale problema dell’Unesco è che la sede si trova in una città molto bella, per cui i dipendenti appena possono si fanno trasferire a Parigi per diventare “burocrati della cultura”. Così i tre quarti del personale ingrossano le file di una macchina superiore anche alla Fao a Roma. Negli anni Ottanta, l’Unione sovietica e i suoi satelliti colorarono di rosso i programmi culturali dell’organizzazione. Da allora, l’Unesco non si è più ripresa. Si vagheggiò un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”. Il dottor Goebbels, celebre per aver teorizzato che una bugia, ripetuta molte volte, finisce per diventare verità, non avrebbe saputo dirlo meglio.

 


Nel 1984 Ronald Reagan fece uscire gli Stati Uniti dall'Unesco. Un anno dopo seguì l'esempio la Gran Bretagna di Margaret Thatcher


 

L’Unesco oggi produce tonnellate di documenti che nessuno legge e che fanno impallidire i piani quinquennali sovietici. Ovviamente, queste tonnellate di carta sono servite a poco per fermare gli scempi islamisti dei siti patrimonio dell’Unesco in medio oriente.

 

L’Unesco tende a occuparsi di tutto e niente: educazione familiare e infanzia, edilizia, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, donne in Africa, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scienza e tecnologia, lavoro minorile, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta. L’Unesco è riuscito però in una missione precisa: strappare schiere di laureati in sociologia alla disoccupazione.

 

Nel 1971, gli Stati Uniti accusarono l’Unesco di essere un covo di spie sovietiche. La sede di Parigi sarebbe stata il più importante centro di informazione russo in Europa. Otto su quindici funzionari della missione di Mosca furono schedati dal controspionaggio occidentale. L’“asse” culturale e politico dell’Unesco si è spostato. Da piccolo club di nazioni unite attorno a un progetto condiviso, l’Unesco è diventata una platea mondiale. Nel progetto originario, “educazione”, “pace” e “libertà” volevano dire per tutti la stessa cosa. Oggi hanno dieci significati. Adriano Buzzati Traverso fu il più duro contro l’Unesco, che aveva vissuto dall’interno: “Durante i dibattiti non aperti al pubblico ho visto e ascoltato delle turpitudini incredibili; addirittura si è arrivati al licenziamento di un funzionario che esprimeva idee contrarie a quelle del governo del suo paese”. 

 

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Succede così che l’Unesco accetti tre milioni di dollari annui per un premio scientifico intitolato a un tiranno corrotto. E’ il caso del presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasog. Contro il dittatore, e contro l’Unesco, si sono schierate associazioni che militano per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Global Witness, ma anche diversi letterati e premi Nobel, come il francese Claude Cohen-Tannoudji, Nobel per la Fisica, ed il canadese John Polanyi, Nobel per la Chimica. Il culto della personalità di Obiang è tale che la maggior parte dei cittadini nel suo paese porta vestiti con la sua faccia impressa, e secondo Forbes ha ammassato una fortuna di seicento milioni di dollari a spese dello stato, dove il novanta per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Nelle parole dell’ex ambasciatore americano, John Bennett, “il regime di Obiang non è davvero un governo, ma piuttosto un’ininterrotta cospirazione criminale a carattere familiare”. Nel commentare il premio, l’Economist disse che “l’Unesco avrebbe potuto premiare anche Saddam Hussein per il suo multiculturalismo”. Peccato che nel 1982 l’Unesco abbia davvero premiato il dittatore iracheno e la sua campagna per “sradicare l’analfabetismo” (il rais sarebbe diventato famoso più per aver sradicato col gas mostarda i curdi). Succede che l’Unesco, nella cornice di L’Avana, abbia assegnato il Premio José Martì a un sincero democratico come il venezuelano Hugo Chávez. Nel 1997, mentre si concludevano le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Francia, all’Unesco scoppiò lo “scandalo schiavi” nella stessa organizzazione dell’Onu che le aveva sponsorizzate. La colpa fu di un alto funzionario del Burundi che “ospitava” alcune nipoti, tenendo le due più grandi in un vero stato di sottomissione che vide anche episodi di violenza fisica e carnale. Si è trattato di Gabriel Mpozagara, che ha relegato alcune nipoti nelle cantine della villa di Versailles del funzionario, senz’acqua, i servizi igienici sostituiti da buchi nel terreno del giardino.

 

La gestione grottesca dell’Unesco è pari al suo odio per Israele. Nel corso della XVIII Conferenza generale (17 ottobre-23 novembre 1974), l’Unesco si rifiutò di inserire Israele in una qualsiasi area del mondo, escludendola così di fatto da tutte le sue attività e finanziamenti. La misura, sostenuta dal blocco comunista e arabo, estrometteva lo stato ebraico e i suoi valori spirituali dal consesso delle nazioni mondiali. Un anno prima, l’Unesco aveva inviato a Gerusalemme un archeologo belga, Raymond Lemaire, per vedere lo stato degli scavi israeliani nella città santa. Tornò con un rapporto che dettagliava il rispetto israeliano per la parte araba e cristiana della città. Insoddisfatto del risultato, l’Unesco soppresse il rapporto Lemaire.

 


La Tomba di Rachele e la Grotta dei Patriarchi a Hebron


 

L’agenzia Onu nel 2010 ha adottato la propaganda arabo-islamica e ha dichiarato che la Tomba di Rachele e la Grotta dei Patriarchi a Hebron, il secondo e il terzo luogo più sacro al mondo per l’ebraismo, sono “moschee musulmane”. In un rapporto scientifico, l’Unesco ha obbligato a una conversione postuma all’islam anche il filosofo-medico ebreo Maimonide, registrandolo con il nome di “Moussa Ben Maimoun”. Nel 2009, l’Unesco ha designato Gerusalemme come “capitale della cultura araba”, collaborando con funzionari dell’Autorità Palestinese per protestare contro quella che descrivevano come “l’occupazione israeliana della Santa Gerusalemme”. Durante la Seconda Intifada, l’Unesco ha condannato Israele per “la distruzione del patrimonio culturale nei territori palestinesi”, definendolo “un crimine contro il patrimonio dell’umanità”. Accuse vaghissime, mentre in concreto l’Unesco rimaneva in silenzio quando i palestinesi incendiavano la tomba di Giuseppe, il terzo più importante santuario religioso ebraico, costruendo al suo posto una moschea. Per non parlare dell’assalto dei terroristi palestinesi alla Basilica della Natività a Betlemme. Nel 2001, l’Unesco ha promosso la “Dichiarazione del Cairo: Documento per la Preservazione delle Antichità di Gerusalemme”, in cui si accusava falsamente Israele di distruggere le antichità islamiche sul Monte del Tempio. Zayzafuna, un giornale dell’Autorità palestinese per i bambini, ha pubblicato il tema di una ragazzina in cui Hitler viene presentato come un modello da ammirare, perché ha ucciso gli ebrei a beneficio del mondo. Il giornale era stato finanziato dall’Unesco. Nei libri di testo palestinesi finanziati dall’Unesco, il termine “Palestina” include tutto lo stato ebraico, in cui i luoghi santi ebraici sono stati cancellati e gli ebrei sono descritti come “locuste” e “animali selvatici”.

 

Nel 2014, a meno di una settimana dall’inaugurazione, l’Unesco ha cancellato una mostra che documenta i 3.500 anni di legami ebraici con la terra santa. Doveva aver luogo nella sede di Parigi, ma l’Unesco l’ha sospesa dicendo che “potrebbe essere percepita dagli stati membri come una minaccia al processo di pace”. Così ha scritto il direttore Irina Bokova al Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles che le aveva chiesto di non cedere al “bullismo” del gruppo arabo. Nel 2003 l’Unesco aveva finanziato la ristrutturazione della Biblioteca di Alessandria, dove venne subito esposta bene in vista una copia del grande classico antisemita “I Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.

 

Succede che l’Unesco sia diventato un tale covo di dittatori che il regime sudanese di Omar al Bashir, personaggio ricercato per genocidio dalla Corte dell’Aia, sieda nel board esecutivo dell’agenzia. I paesi arabo-islamici iniziarono a mostrare la loro influenza quando l’Unesco tenne un incontro a Parigi nel 1991 sul “contributo della civiltà islamica alla cultura europea”. L’incontro venne organizzato in collaborazione con l’Istituto occidentale per la Cultura islamica (Madrid). Nel dicembre 2004, l’Unesco e il Consiglio d’Europa, in collaborazione con la Lega degli stati arabi e l’Arabia Saudita, organizzarono una conferenza al Cairo sulla “immagine della cultura arabo-islamica nei manuali di storia europei”. La conferenza si svolse nell’ambito del Dialogo euro-arabo “Imparare a vivere insieme”, che aveva come obiettivo l’esame, al fine di eliminarli, degli stereotipi negativi della cultura arabo-islamica veicolati dai testi di storia europei.

 

All’ombra della Torre Eiffel, il Terzo mondo autoritario e antioccidentale si è impadronito della centrale internazionale della cultura.

 

La svolta avvenne sotto la presidenza di Amadou Mahtar M’Bow, un musulmano senegalese, avido di titoli accademici (quarantadue lauree honoris causa), cittadino onorario di undici metropoli soggiogate alle dittature, in Africa, Asia, America latina ed Europa orientale. M’Bow era allergico ai diritti dell’uomo. Fu lui, nell’imponente edificio di Place de Fontenoy, a voler creare “un codice dei valori universali”. La Bulgaria era il modello da seguire. M’Bow venne accusato di “terrorismo burocratico ideologico”. Il Sunday Times andò a mettere il naso nella vita sfarzosa del segretario, nel suo appartamento di seicento metri quadrati sulla rive gauche, nelle sue sei automobili, nel suo seguito tre volte più numeroso di quello del segretario delle Nazioni Unite, nei suoi viaggi leggendariamente dispendiosi. Fu M’Bow a imprimere la svolta antioccidentale all’Unesco, mentre il suo predecessore, René Maheu, aveva mantenuto l’Unesco all’interno della tradizione pluralistica occidentale.

 

L’attuale lingua di legno dell’Unesco, la risoluzione che islamizza i luoghi santi ebraici a Gerusalemme (Monte del Tempio e Muro del Pianto), affonda le radici proprio durante la gestione M’Bow. Alla dottrina occidentale del “free flow of information”, i paesi emergenti, appoggiati da quelli socialisti, opposero il principio che la libera informazione maschererebbe la difesa dell’“imperialismo culturale” occidentale. La suprema ipocrisia dell’Unesco fu riuscire a presentare l’addomesticamento dell’informazione come una forma di democratizzazione.

 

Lapalissiano, no? Visto che i paesi occidentali dispongono di mezzi potenti per la diffusione di notizie e che sono notoriamente cattivi, essi diffondono nei paesi più poveri la “loro verità”. Occorre autorizzare all’Unesco il filtraggio delle notizie attraverso Minculpop nazionali, che devono discriminare fra le notizie utili ai cittadini e quelle nocive. La festa sovietica dell’Unesco venne rovinata alla conferenza di Belgrado del 1980 dal delegato afghano, Akhtar Mohammed Paktiawal, che si alzò e disse: “Questa risoluzione è stata adottata per acclamazione, ma se vi fosse stato un voto, mi sarei opposto. Questo documento garantisce il diritto degli stati alla comunicazione, ma non quello degli individui. Da noi, le comunicazioni sono controllate dall’Urss. L’Afghanistan non è più un paese libero. Io levo la voce del popolo afghano di fronte a questa conferenza affinché tutti sappiano che noi aspettiamo l’aiuto dell’Unesco, nei limiti delle sue competenze, affinché ci aiuti a liberarci da questa disgrazia… Ora sta a voi agire. Se non vi curate di noi, se non ascoltate la voce del popolo afghano tutto il retaggio culturale, tutti gli scienziati di oggi e del passato, tutta la nostra civiltà andranno perduti”. Va da sè che l’Unesco non si curò di loro e che Paktiawal prese la via dell’esilio nella Germania Federale.

 

Quando al senegalese M’Bow alla guida dell’Unesco subentrò il biochimico spagnolo Federico Mayor Zaragoza, le cose cambiarono poco. Nel 1993, Zaragoza boicottò una conferenza internazionale sulla scienza a Gerusalemme. Nel 1996, l’Unesco organizzò un simposio su Gerusalemme presso la sede di Parigi. Ma nessun israeliano venne invitato. Quando nel 1998 una delegazione Unesco fece tappa a Gerusalemme, Zaragoza si rifiutò di incontrare i funzionari israeliani. E due anni fa, Zaragoza ha firmato un appello che chiede l’embargo militare di Israele (ma non di Hamas, ovviamente).

 

Negli anni Settanta, l’allora segretario generale dell’Unesco M’Bow proclamava nella Ville Lumière che “i paesi del Terzo mondo sono i portatori della speranza nel pianeta e a dispetto della loro debolezza interna e delle inadeguate risorse naturali sono per loro natura i crociati della giustizia e della libertà”. Da allora, il Muro di Berlino è caduto e il capitalismo liberal-democratico si è imposto come il migliore dei sistemi possibili, ma il gusto e l’ideologia della menzogna continuano a infestare quell’internazionale della cultura, mentre Israele, l’unico stato libero in una mezzaluna che va da Marrakech a Teheran, è ancora trattato come un paria da questi criminali ideologici con attico sulla Senna.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.