Erdogan vieta Shakespeare nei teatri turchi
Come Lady Macbeth, che si ostina a lavare del sangue che non c’è – “Scompari, macchia maledetta! Scompari, dico!” – il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si accanisce nell’epurazione dei dissidenti. Decine di migliaia di persone sono state licenziate o arrestate nell’ultimo mese, accusate di essere complici della macchinazione ordita, secondo il governo, dall’imam Fethullah Gülen nel pasticciato tentativo di golpe del 15 luglio scorso. Gli attori teatrali sono l’ultima categoria presa di mira da Ankara. Il 4 agosto, un comunicato firmato da più di 20 associazioni di professionisti della cultura (giornalisti, scrittori, attori e registi) avvertiva già del clima da “caccia alle streghe” che stava colpendo il settore. La purga è iniziata nei teatri di cintura di Istanbul, con il licenziamento di un regista, sei attori e un impiegato, accusati di essere golpisti, e l’allontanamento di altri 20 attori per “scarse prestazioni”. Domenica 28 agosto il Devlet Tiyatroları, il direttorato ufficiale che gestisce le compagnie teatrali turche, ha rimosso dal calendario tutte le rappresentazioni di autori non nazionali. Niente Lady Macbeth con le sue macchie di sangue, niente Chekhov, niente Goldoni. Nulla di occidentale sui palchi di Ankara.
Una situazione che riecheggia quella vissuta dall’Iran rivoluzionario, quando molti grandi interpreti, registi e commediografi furono costretti a lasciare il paese. Un report dell’organizzazione per la libertà d’espressione Article 19 ricorda come l’ayatollah Khomeini “non eliminò la produzione teatrale, riconoscendone il potenziale propagandistico, ma utilizzò una censura feroce. Gli unici spettacoli permessi erano quelli che lodavano la rivoluzione. Sotto Khomeini, una nuova cultura, radicata nell’islam, iniziò a prendere forma”. Il leader supremo scriveva che “le espressioni dell’occidente, come il teatro e la danza, violentano i giovani soffocandone la virtù e il coraggio”. I teatri statali turchi inaugureranno la stagione il prossimo 4 ottobre: “Apriremo i nostri teatri solamente con opere che contribuiscano all’integrità e all’unità dello stato e rafforzino i sentimenti nazionali”, ha dichiarato Nejat Birecik, vice presidente del Devlet Tiyatroları.
La censura non è cosa nuova al di là del Bosforo. Nel 2015 la Corte europea dei diritti umani ha posizionato la Turchia al primo posto per violazione del diritto d’espressione tra i paesi del Vecchio continente. E a scorrere l’album di famiglia, il disamore di Erdogan per il teatro nasce già nell’aprile 2011, con quella che è stata chiamata la “guerra culturale turca”: a far scoccare la scintilla la figlia del capo dello stato che abbandona inorridita uno spettacolo del teatro statale di Ankara a cui era spettatrice. Sümeyye Erdogan sostiene di essere stata umiliata da un attore, Tolga Tuncer, che l’avrebbe presa di mira durante un’improvvisazione perché portava il velo. “I teatri non possono prendere sussidi statali e poi mordere la mano che li nutre”, chiosava il sultano cinque anni fa. “Se serve un sostegno allora noi, il governo, decideremo a chi darlo. Quando privatizzeremo i teatri potrete recitare quel che vi pare”. Ma apparentemente la privatizzazione va a rilento e al momento sembra più conveniente poter gestire l’apparato culturale statale “all’iraniana”. “Ciò che oggi scriviamo sulla lavagna, domani lo cancelleremo”, dice il Galileo di Brecht. Un altro autore che non sarà rappresentato sui palchi della Turchia questo autunno.
Giorni duri per la libertà di espressione anche a Pechino, dove il governo ha proibito la pubblicazione di notizie di costume e gossip che promuovano “stili di vita occidentali” o prendano in giro i valori tradizionali o diffondano dettagli sulla vita sentimentale dei vip. Le nuove linee guida emanate dall’autorità generale dei media cinesi vietano di raccontare le dispute e gli affari privati di stelle del cinema, miliardari e celebrità. Basta sensazionalizzare il successo, e dipingerne i retroscena scrivendo che è stato raggiunto con l’inganno o l’individualismo. D’ora in poi anche i giornali patinati dovranno rispettate le ideologie del Partito comunista e adottare un “tono positivo”, considerato politicamente corretto dalle autorità.
Isteria migratoria