Blitz dei carri armati turchi in Siria: Jarablus strappata al Califfato (foto LaPresse)

E' Obama a fregare i curdi in Siria, o sono i curdi a snobbare Obama?

Daniele Raineri
Le forze curde appoggiate dagli americani stanno violando un accordo che le impegnava a stare a est dell’Eufrate.

Roma. Il tono usato ieri dagli ufficiali americani a proposito della situazione nel nord della Siria era da mani nei capelli. Nel giro di una settimana dall’inizio dell’incursione turca in Siria contro lo Stato islamico “e altri gruppi terroristici” benedetta da Washington, gli americani stanno osservando scontri brutali tra le forze della Turchia e i curdi delle Ypg, le unità di difesa che sono la spina dorsale delle Forze siriane democratiche, un assortimento di combattenti curdi e arabi appoggiati – pure loro – dal governo americano perché fanno la guerra allo Stato islamico. Il portavoce del Pentagono, Peter Cook, ha definito gli scontri “inaccettabili” e ha chiesto una “deconfliction” immediata. Il capo della missione americana anti Stato islamico, Brett McGurk, ha detto anche lui che i combattimenti sono “inaccettabili”. Deconfliction è una parola interessante perché fu tirata fuori per la prima volta un anno fa a proposito della coabitazione forzata tra aerei americani e russi nello stesso cielo della Siria, e fu ridicolizzata per il troppo olezzo di ipocrisia. Ormai vale come sinonimo di convivenza forzata tra due forze che vorrebbero spararsi addosso tanto quanto vogliono combattere contro lo Stato islamico.

 

Il problema, spiega al Foglio David Kenner, direttore del reparto medio oriente della rivista americana Foreign Policy, è che “sia Ankara sia i curdi stanno spingendo per realizzare i loro piani massimalisti. Quello dei curdi è unificare i cantoni”, ovvero conquistare anche la terra di mezzo che per ora divide il grosso del loro territorio a est con una enclave a ovest e realizzare così il sogno del Rojava, la terra dei curdi in Siria. Sogno che però non tiene conto che questa continuità territoriale non esiste e ci sono zone a forte presenza di arabi. “Il piano massimalista dei turchi è eliminare l’entità autonoma curda”, che però in Siria esiste già nei fatti. “Gli Stati Uniti in questo momento stanto tentando di  fare raggiungere alle due parti un accordo di compromesso che dia un po’ meno a entrambi – dice Kenner – E’ possibile che l’America riesca ad arrangiare un qualche tipo di accordo a breve termine che non li costringa a scegliere tra i turchi e i curdi. Dobbiamo vedere come va a finire…”.

 



I due sogni contrastanti di curdi e governo turco in Siria, visualizzati in una mappa (via Syrian Rebellion Obs)


 

Ieri mattina il Wall Street Journal faceva notare l’esistenza di un accordo tra i militari americani e le Forze siriane democratiche: non dovevano spingersi a ovest del fiume Eufrate, così da non provocare la reazione turca. A questo accordo è poi stata fatta una deroga per facilitare le lunghe operazioni militari che hanno portato alla liberazione dallo Stato islamico della città di Manbij, che è sulla sponda ovest del fiume, ma in quel caso l’accordo prevedeva che subito dopo le Ypg avrebbero lasciato la zona e sarebbero tornate a est. Quando invece non l’hanno fatto, è cominciata l’operazione turca. Ora il Pentagono sostiene che in pratica si sono già quasi ritirati del tutto, come chiesto. Un ufficiale turco invece dice: “Ci prendono per scemi? Devono ritirarsi per davvero al di là del fiume”.

 

Come nota l’analisi della “Week in review” turca del sito al Monitor, i curdi hanno scelto il momento sbagliato per mettere alla prova le relazioni tra Amministrazione Obama e Turchia, poco più di un mese dopo il fallimento di un colpo di stato militare contro il presidente Recep Tayyip Erdogan. A molti turchi che indulgono alle teorie del complotto piace piazzare Washington tra i mandanti dei golpisti, e gli americani si devono scrollare di dosso quest’aura maligna. L’Amministrazione Obama appoggia i curdi quando il piano è sradicare lo Stato islamico dalla Siria, non quando è l’edificazione del Rojava. Del resto, se non ci fosse stata una campagna aerea americana massiccia nel 2014, oggi il cantone di Kobane farebbe parte dello Stato islamico.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)