Il primo ministro David Cameron durante la campagna a favore del Remain (foto LaPresse)

Ragioni liberali e federaliste per tifare Brexit

Carlo Lottieri

La Brexit serve soprattutto a comprendere come la specificità dell’Europa sia sempre consistita nel suo garantire un’ampia comunanza culturale e mercati interconnessi entro un quadro di amministrazioni locali: governi in competizione e quindi costretti a contenere le loro pretese.

L’omicidio della povera Jo Cox, con ogni probabilità, ha impresso una svolta decisiva alla campagna elettorale sulla Brexit. Secondo gli ultimi sondaggi le probabilità che il Regno Unito lasci l’Unione si sarebbero assottigliate, ma quale che sia l’esito che uscirà dalle urne, è chiaro che le questioni sollevate sono rilevanti e che continueranno a pesare pure nel dibattito politico sull’Europa. A ragione, molti hanno evidenziato i rischi conseguenti a un distacco di Londra da Bruxelles, perché è chiaro come il populismo anti-Ue si nutra anche di umori xenofobi e protezionistici. Se la società britannica si isolasse dal continente non avremmo soltanto le perdite economiche paventate (spesso in maniera allarmistica) dall’establishment schierato con lo status quo. Più in generale, vi sarebbe una menomazione delle libertà fondamentali e gli effetti economici negativi sarebbero solo una conseguenza di tutto ciò. E al tempo stesso un’eventuale Brexit comporterebbe benefici su cui è opportuno richiamare l’attenzione.

 

L’uscita del Regno Unito dal club comunitario riporterebbe la Ue sulla terra. La prima defezione, dopo un processo pluridecennale di adesioni, farebbe comprendere come questa istituzione umana non è esente da difetti e merita rispetto se e quando si pone al servizio dei diritti delle persone. Troppi parlano dell’Unione con toni mistici che impediscono ogni riflessione, ma quella mitizzazione verrebbe meno nel momento in cui Londra decidesse di fare da sola. Dopo aver prosaicizzato lo Stato moderno con il voto scozzese (che ha ricondotto l’Uk a un libero patto tra comunità), gli inglesi si apprestano a fare lo stesso con l’Unione europea. Per giunta, l’Europa è stata costruita secondo logiche interventiste e tecnocratiche. Se dobbiamo essere grati all’Unione per aver distrutto le barriere tra i diversi Paesi, al tempo stesso non possiamo dimenticare che molti dei problemi della nostra agricoltura, ad esempio, sono la conseguenza di un assistenzialismo disastroso.

 

Per giunta, le direttive si configurano come strumenti di regolazione che riducono le libertà e ignorano le specificità. Il progetto di un’Europa armonizzata è più un incubo che un sogno: per tutta una serie di ragioni. La società europea ha certamente bisogno di mercati aperti, ma al tempo stesso ha egualmente bisogno di governi locali, responsabili, controllati direttamente dalla popolazione, che tassino e spendano sul luogo (rendendo conto di quanto fanno). Le  classi politiche nazionali temono tutto ciò e anzi sognano di superare il cosiddetto “deficit democratico”: immaginando di avere a Bruxelles un vero parlamento e un vero governo incaricati di prendersi cura di tutto il continente. Ma quella prospettiva comporterebbe esiti illiberali. Non soltanto, allora, bisogna auspicare che il mercato ora “comune” (aperto agli europei, ma chiuso all’esterno) diventi anche “libero”, smettendola di perdere tutta una serie di importanti opportunità.

 

Egualmente importante è che il processo di costruzione del Super-Stato venga bloccato, dando invece fiato a vera una concorrenza tra governi locali la quale permetta a imprese, famiglie e capitali di collocarsi dove sono meglio rispettati, e in tal modo obblighi le classi politiche a operare al meglio. La Brexit può essere letta in termini nazionalistici, ma può essere soprattutto l’occasione per comprendere come la specificità dell’Europa sia sempre consistita nel suo garantire un’ampia comunanza culturale e mercati interconnessi entro un quadro caratterizzato da amministrazioni locali: governi in competizione tra loro e quindi costretti a contenere le loro pretese.

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