Kirkuk fu salvata dai peshmerga curdi. Oggi è saldamente nelle loro mani, è vivace e cordiale come può esserlo una metropoli che vive di petrolio e sopravvive alla guerra (Foto di Adriano Sofri)

Viaggio nel collasso dell'Iraq

Adriano Sofri
A Baghdad regna il caos, le faide sono all’ordine del giorno e i curdi pensano al referendum per l’indipendenza. Una formalità, è solo questione di tempo.

Kirkuk fu disertata di colpo dall’esercito regolare iracheno due anni fa, che si squagliò abbandonando armi e bagagli, come a Mosul. A differenza di Mosul, Kirkuk fu salvata dai peshmerga curdi. Oggi è saldamente nelle loro mani, ed è vivace e cordiale come può esserlo una metropoli che vive di petrolio e sopravvive alla guerra, quando il prezzo del petrolio crolla e la guerra diventa un’abitudine di periferia. Al momento di ridisegnare i confini di questa terra, Kirkuk sarà la posta più ghiotta. I miei ospiti commentano sarcasticamente le notizie del giorno: da Baghdad si proclama che l’esercito iracheno rientrerà a Kirkuk, o che ci entreranno le famigerate milizie sciite di Hashd al Shaabi. In verità, l’esercito iracheno ha speso un mese senza venire a capo della resistenza dell’Isis in un piccolo villaggio alle porte di Makhmour e, a sud di Kirkuk, l’Isis ha appena esposto nella piazza di Hawija 75 miliziani al Shaabi che dice di aver catturato in un’imboscata nel villaggio di Bashir.

 

Ognuno qui deve decidere da un’ora all’altra chi sia il proprio nemico principale. L’Isis è più debole, dicono tutti. Haider è un falegname turkmeno sfollato da Mosul, mi racconta che le defezioni si moltiplicano. Si scappa in tanti modi, dice: andando a tartufi, per esempio. E’ la stagione dei “tartufi del deserto”, e la loro ricerca offre un pretesto per sconfinare. C’è perfino chi chiede di essere mandato al fronte, per avere un’occasione di passare le linee. A disertare sono anche esponenti di spicco di Daesh, dicono. Gli sfollati di Mosul comunicano con chi è rimasto attraverso parenti e amici in Turchia. Raccontano di gruppi guerriglieri interni intitolati al profeta Giona, a Saladino, che aspettano il buio per assaltare gli uomini dell’Isis… A Kirkuk, che ha una maggioranza curda ma grosse minoranze di arabi e turkmeni, il problema principale per l’ordine pubblico è il controllo degli infiltrati fra i tanti arabi che si consegnano ai peshmerga.

 

Ieri, lunedì, un’operazione congiunta delle forze speciali americane e curde, atterrate da elicotteri a sud di Mosul, ha ucciso Salam Abd Shabib al Jburi, detto Abu Saif, e due suoi aiutanti. Abu Saif era stato il comandante della piazza di Mosul e dell’avanzata su Mosul e Makhmour. Operazioni come questa sono diventate il centro della strategia americana, e hanno ottenuto risultati efficaci e spettacolari. Gli americani hanno anche fatto avanzare le postazioni dei loro “istruttori” in direzione di Mosul, e accresciuto il numero. Tuttavia la controffensiva per Mosul, sempre annunciata, segna il passo, per usare un eufemismo: per alcuni versi marcia indietro. Gli americani premono sui curdi perché partecipino, benché i curdi non accampino alcuna pretesa territoriale su Mosul e la provincia di Ninive, dove sono sempre stati numerosi ma minoranza: quello è il petrolio dei sunniti, come Bassora è degli sciiti e Kirkuk dei curdi. (In realtà, si trova petrolio dappertutto, compresi i monti Qandil, la roccaforte del Pkk in esilio bombardata da Erdogan). A Mosul i curdi potrebbero intervenire di rincalzo, ma chiedono: di rincalzo a chi? E la partecipazione dei miliziani di Hashd al Shaabi è comunque agli occhi dei sunniti di Mosul e di Anbar una minaccia e un oltraggio peggiori della sudditanza al Califfato. Così stando le cose, il generale Mac Farland potrebbe scrivere al presidente Obama: se vuoi vedere Mosul, te la mando in cartolina…

 


Un uomo, al mercato cittadino, mentre tratta sul prezzo dei colombi viaggiatori


 

Un paio di settimane fa c’è stata una rapina a un trasporto di dinari iracheni sulla strada che va da Baghdad a Mosul. Bottino in dollari: 22 milioni. E dov’è il witz?, direte. Qui: che quei milioni di dollari erano l’ammontare degli stipendi della sanità di Mosul, versati dal governo iracheno. Il quale, con una regolarità statale degna di Maria Teresa d’Austria, ha continuato a pagare stipendi e salari ai dipendenti pubblici del territorio ufficialmente iracheno, benché sia da due anni occupato dal sedicente Califfato. Il quale, con analoga regolarità, smista stipendi e salari trattenendone una sua quota adeguata. In questa oltranzista disciplina burocratica qualcuno, un po’ più forte della cosiddetta criminalità comune, ha pensato a sua volta di esigere la sua parte.

 

E’ solo uno dei paradossi dell’espressione geografica che va sotto il nome di Iraq. Dove la riconquista di città e territori perduti rovinosamente a partire dal giugno del 2014 non fa che intensificarsi, a stare alle dichiarazioni ufficiali. Il ministro della difesa americano ha appena visitato, a questo fine, prima Baghdad e poi Erbil, la capitale della Regione autonoma del Kurdistan (iracheno). In mancanza di meglio, o per scongiurare il peggio, come preferite, bisogna infatti far finta che l’Iraq esista. Ieri, lunedì, scadeva un ennesimo ultimatum al governo di al Abadi, 64 anni. Da giorni il parlamento di Baghdad è occupato da una altalenante maggioranza di deputati e dai miliziani dei notabili principali. Prima, c’era stato un lungo assedio di folla al bordo della “zona verde” riservata alla leadership locale e alle rappresentanze internazionali. La tensione è così alta da far richiamare nella capitale reparti militari, elicotteri compresi, dal fronte della guerra all’Isis. Una tragicommedia.

 

Al centro della contestazione al governo di al Abadi sta ufficialmente la corruzione. I contestatori, come succede, non sono meno corrotti dei contestati, ma il tema è capace di mobilitare grandi folle. L’assedio della zona verde era stato indetto da Muqtada al Sadr, 41 anni, leader sciita di un movimento che ha 32 deputati sui 275 che compongono il parlamento iracheno: pochi rispetto alla mobilitazione di massa di cui ritiene di disporre. Al Sadr aveva ingiunto ad al Abadi di sciogliere il suo “governo dei partiti” e formare un “governo di tecnici”. Cosa che Abadi ha provato a fare dopo lunghe tergiversazioni, per vedersi prontamente bocciati dai partiti i governi proposti. Non è difficile vedere dietro il discredito di Abadi la lunga mano di Nuri al Maliki, cui Abadi era succeduto nell’agosto del 2014 per cercare di rattoppare la lacerazione con la parte sunnita passata, volente o no, sotto il sedicente Califfato. Estromesso dalla carica, Maliki, 66 anni, capo del partito islamico Da’wa, è rimasto l’uomo forte del regime sciita. A questo punto, una maggioranza di deputati ha occupato il parlamento, imposto la cacciata del suo presidente, il sunnita Salim al Jaburi, chiesto le dimissioni di Abadi e la fine della spartizione delle cariche.

 

L’Iraq è come una grande Bosnia: riserva la presidenza della repubblica a un curdo – Fu’ad Ma’sum – e del parlamento a un sunnita, a sua volta con due vicepresidenti, uno sciita e un curdo: cariche poco più che formali. (La presidenza curda era meno formale quando a tenerla era il carismatico Talabani). In questa parodia di condivisione dei poteri, la scissione fra sciiti e sunniti non ha fatto che aggravarsi. Nel centronord sunnita del paese occupato, la tenuta militare e amministrativa dell’Isis è largamente assicurata dal vecchio apparato baathista di Saddam. Gli sciiti hanno a loro volta delle aree principali di influenza: il sud di Bassora in cui vive l’ayatollah al Hakim, il distretto sciita di Sadr City a Baghdad in mano ad al Sadr, popolato da una moltitudine incalcolata, tra uno e tre milioni, e la regione di Maliki, con le città sante di Kerbala e Najaf. Fra gli stessi sciiti le divisioni sono forti, e la rotta grottesca dell’esercito regolare iracheno al momento dell’avanzata dell’Isis ha moltiplicato le milizie parastatali, o paraprivate, di notabili e zone diverse.

 

La più numerosa, la “Forza di mobilitazione popolare”, Hashd al Shaabi, è sorta, sulla scia dell’armata Badr della guerra contro Saddam, all’appello dell’ayatollah Sistani contro l’Isis. E’ di gran lunga più potente dell’Esercito regolare iracheno. Il suo comandante, Hadi al Ameri, 62 anni, già ministro di Maliki, è uomo dell’Iran e soprattutto di Qassem Suleimani, il capo dei Guardiani della Rivoluzione iraniani e l’eminenza più temuta del vicino oriente. Al Ameri oggi solidarizza con la rivolta del parlamento, suoi uomini si sono aggiunti agli occupanti. Nel gran parapiglia, che mescola alla rinfusa sunniti e sciiti, si recita un copione fra rivoluzione e colpo di mano. Il presidente deposto del parlamento si dice disposto a rientrare in aula a condizione di non essere ingiuriato, gli replicano che può venire ma senza guardie del corpo. Si propongono organigrammi: un presidente sunnita e un vice sciita ma del movimento saadrista, oppure una onirica presidenza lasciata a cristiani, turkmeni e yazidi. Finché ieri si è deciso di far cessare l’occupazione e di convocare per oggi, martedì, una seduta plenaria che decida sulla presidenza del parlamento e sul governo. Mentre ancora si concordava l’appuntamento, la folla di seguaci di Muqtada al Sadr prendeva d’assalto sei ministeri e ci chiudeva a chiave i titolari, per marciare poi alla volta del parlamento.

 

L’Iraq è al collasso, dicono i curdi dei due partiti maggiori, il Pdk di Barzani e il Puk di Talabani-Kosrat, che stanno a guardare, e annunciano più imminente il referendum sull’indipendenza. Il referendum sarà una formalità, quando avverrà. E tutti sanno che è solo questione di tempo. Per i curdi, di aspettare che le condizioni internazionali siano raccolte: cioè che la scena internazionale non veda più un protagonista in grado di impedirlo. I curdi nel parlamento di Baghdad hanno ostentatamente evitato di farsi invischiare nella bagarre, rivendicando il rispetto delle regole democratiche (con due defezioni, di una deputata del partito Goran, una scissione del Puk, e uno dell’Unione islamica, subito espulsi). Così stando le cose, l’indipendenza curda può arrivare come il risultato oggettivo dello spappolamento dello stato iracheno prima ancora che come un’iniziativa di Erbil. Per giunta, le inadempienze finanziarie di Baghdad sono clamorose. Il Kurdistan non ha mai avuto un contesto più favorevole. Con qualche grossa complicazione, legata alle divisioni intestine. Ci torneremo.

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