Iraq, scontri fra Peshmerga e turcomanni sciiti a Tuz Khurmatu nel nord del paese (foto LaPresse)

Lo scenario e gli schieramenti del 26 aprile curdo

Adriano Sofri
Cominciamo dalla battaglia di Khurmatu, di cui ho scritto ieri, fra curdi, che presidiano la cittadina a sud di Kirkuk, e sciiti delle milizie “di Mobilitazione Popolare”, Ashd al-Shaabi, che sono di fatto bande di saccheggiatori più forti e armate dell’esercito regolare iracheno, legate a doppio filo all’Iran.

Cominciamo dalla battaglia di Khurmatu, di cui ho scritto ieri, fra curdi, che presidiano la cittadina a sud di Kirkuk, e sciiti delle milizie “di Mobilitazione Popolare”, Ashd al-Shaabi, che sono di fatto bande di saccheggiatori più forti e armate dell’esercito regolare iracheno, legate a doppio filo all’Iran. Ieri si contavano parecchie decine di morti, fra i peshmerga, gli abitanti civili, e, almeno 40, gli Ashd al-Shaabi. Tutto ciò avviene a ridosso del fronte con l’Isis: la forsennata anticipazione di una guerra pronta a scoppiare quando l’Isis fosse battuto, traguardo ancora remoto. La cosa è andata così: degenerato un tafferuglio fra sciiti (turcmeni i più a Khurmatu, dove la minoranza araba è sunnita) in battaglia di cecchini e di mortai, il potente capo delle milizie sciite di Shaabi e di Badr, Hadi al-Amiri, viene a Kirkuk a concordare col governatore curdo la cessazione del fuoco a Khurmatu: baci, abbracci, fotografie. Amiri – uomo votato anima e corpo a Qassem Suleimani, capo delle Guardie rivoluzionarie iraniane e regista dei loro interventi stranieri – va via da Kirkuk e si lascia dietro a Khurmatu 40 veicoli militari carichi di soldati e munizioni, i quali riaccendono la battaglia che, mentre scrivo, è in corso.

 

Intanto, nella stessa giornata, a Baghdad si svolge la nuova “marcia del milione” di sciiti mobilitati da Muqtada al-Sadr per forzare il cambio “tecnico” in attesa del quale il governo e il parlamento iracheni sono paralizzati. Ho così riassunto solo una parte del contesto nel quale deve finalmente avviarsi il piano per la riconquista di Mosul, alla quale gli americani sembrano essersi decisi, Obama compreso, che vorrebbe lasciare la presidenza almeno con questo successo, il più decisivo del resto. Mosul, seconda città dell’Iraq, è restata nelle mani dell’Isis per quasi due anni, e per liberarla bisognerà venire a capo di un apparato militare micidiale, in particolare di armi chimiche e di mine, oltre che di una ressa di terroristi suicidi. Le armi chimiche, importate o fabbricate dall’Isis in tre località siriane e irachene, sono state impiegate in più occasioni, e ancora nei giorni scorsi. In mano ai peshmerga e agli alleati americani esistono esemplari di razzi a testata chimica con tanto di etichetta di fabbrica.

 

Si capisce che in questo quadro gli americani puntino molto più sulla forza dei peshmerga, finora considerata solo come di rincalzo, dato che i curdi non hanno rivendicazioni territoriali su Mosul e Ninive. Il comando dell’operazione, che sarà anche la più impegnativa per i militari italiani, è affidato a un generale iracheno sunnita. Finora niente di definitivo è deciso quanto alla partecipazione delle milizie sciite, benché americani e curdi la vedano come il fumo negli occhi, perché la popolazione sunnita le detesta e le teme più che non tema l’Isis, e per le vendette brutali e le ruberie di cui vanno fiere. Si dice, piuttosto credibilmente, che nella “liberata” Baji, occupata dagli armati di al Shaabi, la raffineria, la più grande del medio oriente, sia stata largamente smantellata e svenduta, a pezzi, ad acquirenti iraniani. Questo lo scenario, a guardarlo dal 26 aprile curdo.

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