L’ammiraglio Harry Binkley Harris junior è nato a Yokosuka, in Giappone

Il comandante che combatte la Cina da solo

Giulia Pompili
Chi è l’ammiraglio Harris, comandante delle Forze americane nel Pacifico, diventato vero pivot asiatico di Obama. E’ in corso un lento processo di modifica dello status quo in Asia, che mira a incoronare la Cina come unica vera potenza.

Roma. La scorsa settimana il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, era in visita a Washington. Mentre stringeva la mano al segretario di stato americano John Kerry e si faceva fotografare al Center for Strategic and International Studies, Wang Yi  rivendicava la natura “pacifica” delle isole artificiali nel mar cinese meridionale e l’importanza dell’alleanza tra Pechino e Washington. Nel frattempo, sull’altra sponda del fiume Potomac, in una stanza del Pentagono, qualcuno metteva la Cina al centro della mappa dei rischi della Difesa americana. L’ammiraglio Harry Harris, comandante dell’Us Pacific command (il Pacom), incontrava i giornalisti al dipartimento della Difesa e chiariva alcuni punti. Primo: la Cina sta militarizzando il Pacifico. Secondo: quelle del mar cinese meridionale sono acque internazionali, non di pertinenza cinese. Terzo: la Cina non può avere il controllo esclusivo di un’area geografica dal quale passano 5 mila 300 miliardi di dollari (più di cinque trilioni) in operazioni commerciali, un quinto delle quali sono destinate agli Stati Uniti.

 

L’ammiraglio Harry Binkley Harris junior è il volto della guerra silenziosa che si sta combattendo nel Pacifico. E’ una guerra in cui si mostrano i muscoli, che si fa con le esercitazioni militari, con un gravoso impiego di mezzi, intelligence, dichiarazioni e provocazioni. Da sei anni a questa parte la Cina ha accelerato la sua trasformazione in potenza egemone dell’Asia, e lo fa usando la sua influenza sui paesi vicini, specialmente i più piccoli. Pechino costruisce isole in acque ritenute internazionali, vi installa strutture militari, rivendica la sovranità di un’area ben più ampia di quella riconosciuta dal diritto internazionale – e questo sia nel mar cinese meridionale sia nel mar cinese orientale – provoca gli alleati di Washington, quando non direttamente l’America. E’ un lento processo di modifica dello status quo in Asia, che mira a incoronare la Cina come unica vera potenza capace di fronteggiare l’America.

 

I nostri nemici sono quattro, dice il Pentagono, e in questo momento sono tutti e quattro in Asia: Cina, Corea del nord, Russia e Stato islamico. Per questo l’ammiraglio Harris rappresenta il volto di questa guerra silenziosa. E’ il comandante delle quattrocentomila anime che compongono le Forze armate americane presenti nel Pacifico, e che in questo momento svolgono un ruolo di deterrenza contro le mire cinesi, e di difesa contro i possibili attacchi nordcoreani. Ma Harris ha anche un ruolo politico: “La nostra area di responsabilità copre mezzo mondo, dagli orsi polari ai pinguini, e da Hollywood fino a Bollywood”, ha detto tempo fa, e a ogni occasione pubblica, in ogni discorso, non fa che ripetere che  la Corea del nord è una minaccia concreta e imprevedibile (“che mi tiene sveglio la notte”, ha detto) ma è la Cina che sta militarizzando l’Asia, e può diventare una minaccia per tutti. Del resto, è l’ammiraglio Harris a mediare per le più importanti partite della Difesa americana. La scorsa settimana al Senato ha detto che l’America è quasi pronta a firmare tre accordi con la Difesa indiana, e tra qualche giorno ci sarà un incontro tra Harris e il suo omologo in India. Il Pentagono, rappresentato da Harris, vuole assicurare a Nuova Delhi la protezione americana in caso di provocazioni cinesi. “La situazione si sta aggravando”, ha detto l’ammiraglio, perché la Cina vuole espandere la sua influenza fino all’Oceano indiano. Pechino scoraggia l’India soprattutto per il suo legame con il Vietnam, e per i suoi rapporti commerciali con Hanoi, che da tempo tenta di emanciparsi dall’area di influenza cinese. L’India, il Giappone e in parte l’Australia sono in questo momento i principali alleati di Washington del Pacifico e nell’Oceano indiano, e con l’ammiraglio Harris il Pentagono non poteva avere negoziatore migliore.

 


I venti paesi dell’area Indo-Pacifico, in una delle mappe del Csis


 

“Molti di voi sanno che sono un uomo del sud, e quindi y’all, aloha a tutti”. Y’all è la contrazione delle parole you e all, un saluto legato allo slang delle regioni del sud dell’America. E’ così che Harry B. Harris Jr. ha iniziato il suo discorso del 27 maggio del 2015, il giorno in cui è passato dal comando della divisione della marina del Pacifico al comando di tutto il Pacom. L’ammiraglio Harris è nato il 4 agosto del 1956 a Yokosuka, una città portuale di oltre quattrocentomila abitanti nella prefettura di Kanagawa, sulla costa est del Giappone. E’ il primo americano di origini giapponesi a ricoprire il ruolo strategico di comandante del Pacom. Un dettaglio non di poco conto: Harris parla e si muove come un americano del sud, ma è di origini asiatiche, e la sua fisicità lo dimostra. Ha una storia comune a molti americani, che inizia quando i veterani che avevano combattuto nel Pacifico tornavano in patria, portandosi dietro anche le mogli giapponesi. Il padre dell’ammiraglio Harris era un marinaio di stanza alle Hawaii, dislocato in Giappone e Corea dal 1946 fino al 1958. Harris senior e i suoi quattro fratelli avevano tutti combattuto la Seconda guerra mondiale nel teatro del Pacifico. La madre era una donna giapponese, originaria di Kobe. Vittima dei bombardamenti americani, fu costretta a trasferirsi a Yokohama e a lavorare nella base americana di Yokosuka, dove conobbe il padre di Harris. Sul finire degli anni Cinquanta, la famiglia si trasferì nel Tennessee, dove viveva la famiglia paterna, in una fattoria senza acqua corrente né elettricità. In un’intervista al Time del maggio del 2015, Harris racconta che sua madre non gli insegnò mai il giapponese: “Mi diceva di essere fiero delle mie origini giapponesi e del Sud, ma voleva che mi concentrassi sul mio essere americano. Mi insegnò il concetto di giri”, la parola che in giapponese unisce il senso del dovere con la lealtà, il sacrificio, la devozione. Nel 1978, a ventidue anni, Harris si è diplomato all’Accademia navale americana e ha continuato i suoi studi a Harvard, alla Georgetown e a Oxford. Da lì è iniziata la sua carriera militare e politica, come naval flight officer (Nfo), un ruolo che la Marina americana assegna a chi controlla gli obiettivi, a metà tra il pilota e il navigatore di volo.

 

Harris è l’uomo che riesce a innervosire la Cina più di ogni altro. I rapporti tra Washington e Pechino sono dominati dalla politica, tra le due capitali si stringono accordi economici, si fa realpolitik, e spesso si minimizza la situazione nel Pacifico con formule che non scontentino nessuno. Harris non ha mai cambiato la sua posizione da quando ha preso il comando delle Forze navali dell’area, una posizione chiara, limpida, sulla minaccia cinese nel Pacifico. E’ l’uomo che l’Amministrazione americana oggi può usare per chiamare le cose con il loro nome. Sul campo – anzi, sull’acqua, perché le guerre nel Pacifico non si combattono sulla terraferma – è l’ammiraglio Harris a mostrare i muscoli per primo. E’ il comandante del Pacom, infatti, che ordina alla marina americana di violare sistematicamente l’arbitrario limite delle acque territoriali rivendicate dalla Cina. E’ Harris che ha detto che le Forze armate americane “possono operare quando vogliono, dove vogliono nel Mar cinese meridionale”. Il suo obiettivo è quello di portare nell’area Indo-Pacifico asiatica il 60 per cento della capacità militare americana entro i prossimi quattro anni, “un modo per bilanciare l’aspetto militare. Agli aspetti politici, economici, diplomatici, ci penseranno gli altri”. Ma le navi non bastano: “Sono meno preoccupato di un confronto con le navi cinesi, ma lo sono di un confronto con i missili”.

 

[**Video_box_2**]Del comandante Harris si fidano perfino i sudcoreani, che da tempo si lasciavano corteggiare da Cina e Russia nelle decisioni di politica internazionale. Ma dopo il test atomico del 5 gennaio scorso rivendicato dalla Corea del nord, e il successivo test missilistico eseguito da Pyongyang, Washington e Seul si sono improvvisamente ritrovate: l’America spinge per nuove più aggressive sanzioni contro la Corea del nord, e Seul ringrazia. Sono pure ripartiti i colloqui per l’acquisto da parte della Corea del sud del sistema antimissilistico della Lockheed Martin chiamato Thaad (Terminal High Altitude Area Defense, significa: difesa d’area terminale ad alta quota). Cina e Russia in passato si sono espresse contro il dispiegamento nel sud della penisola coreana del Thaad. Secondo la Cina, infatti,  il Thaad potrebbe essere usato per monitorare tutto tranne che la Corea del nord – una specie di incubo per Pechino. “La migliore risposta alle provocazioni nordcoreane è una consistente e forte alleanza tra America e Corea del sud”, ha detto Harris, mandando un messaggio chiaro al primo partner commerciale (e politico) di Pyongyang, la Cina.

 

Il 23 febbraio scorso, durante l’ultima audizione alla Commissione del Senato sulle Forze armate, il senatore Mike Rounds ha fatto una domanda all’ammiraglio Harris sul dislocamento “di LRS-B”. Harris ha ascoltato tutta l’articolata questione, e quando è arrivato il turno della sua risposta ha detto: “Scusate, non conosco l’acronimo”. Rounds ha spiegato che si tratta dell’acronimo per Long Range Strike Bomber, e allora è Harris ha iniziato a rispondere. Subito dopo, la senatrice Jeanne Shaheen ha preso la parola premettendo, senza un filo di sarcasmo: “Mi fa sentire molto meglio sapere che perfino qualcuno nella sua posizione non conosca il significato di certi acronimi usati”. “Acronyms kill, ma’am”, ha risposto Harris, gli acronimi ammazzano. Sempre per un motivo: chi usa gli acronimi non chiama le cose con il proprio nome. E a Harris, quei tipi così, piacciono poco.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.