Aung San Suu Kyi festeggia la vittoria alle elezioni a Yangon lo scorso novembre (foto LaPresse)

La Birmania di Aung San Suu Kyi sta cambiando davvero?

Massimo Morello
Viaggio nel paese della “democrazia sottosviluppata”, dove la Signora ha un controllo strategico e ossessivo di tutto ciò che la circonda (e fa bene). Il nodo economico e quello dell’organizzazione dello stato
“Una democrazia sottosviluppata”: questo il destino della Birmania. Lo sostiene Richard Cockett, ex corrispondente dell’Economist che ha appena pubblicato l’ennesimo saggio sul paese: “Blood, Dreams, and Gold”. E’ una definizione corretta, ingiusta, superficiale e arrogante.

 

Che la Birmania non sia destinata a divenire una democrazia di stampo occidentale è apparso evidente sin dalla prima sessione del nuovo Parlamento, lunedì scorso. Dopo oltre cinquant’anni di dittatura, la maggioranza in entrambe le camere era rappresentata da rappresentanti eletti liberamente nel novembre 2015. Tutti appartenenti al partito di Aung San Suu Kyi, la National League for Democracy (NLD).  Le gigantesche aule dell’inquietante Parlamento della nuova capitale Nay Pyi Taw, costruita dalla giunta militare come una fortezza nel centro del paese, erano colorate di arancio color pastello, le uniformi della NLD. Quasi intonate alle divise verde chiaro dei rappresentanti del Tatmadaw, le forze armate, cui spetta di diritto il 25% dei seggi, come stabilito nella costituzione del 2008, scritta dagli stessi militari. E così non potrà essere modificato il comma f dell’articolo 59 della costituzione che impedisce di divenire presidente a chi abbia figli o coniugi stranieri. Come Aung San Suu Kyi. Inoltre, ricorda Bertil Lintner, uno dei più profondi conoscitori dei “segreti” birmani: “Devi sempre tener presente che l’esercito è autonomo. Non prende ordini dal presidente, solo dal comandante in capo”.

 

Democrazia sottosviluppata, quindi. Ma bisogna precisare che sino a pochi anni fa almeno 110 dei parlamentari dell’NLD erano prigionieri politici, Come la Signora, spesso in condizioni ben peggiori degli arresti domiciliari. Questa è la cosa fenomenale, che rende ingiusta la definizione. La prima riunione del nuovo Parlamento è solo un passaggio nel processo di “trasformazione democratica” avviato nel 2011  dall’attuale presidente Thein Sein (cui la Storia, prima o poi, renderà merito). In seguito, mentre le primavere arabe divenivano un inverno, la Birmania procedeva nella buddista ”via di mezzo”. “La vittoria della NLD è solo un passo nel processo democratico del Myanmar (nome ufficiale della Birmania), non il principale punto di svolta” ha dichiarato Yan Myo Thein, ex prigioniero politico oggi analista politico. Ecco perché, dopo la schiacciante vittoria alle elezioni di novembre, la Signora ha incontrato per due volte il potentissimo comandante in capo del Tatmdaw, il generale Min Aung Hlaing. Voleva riaffermare la necessità di un “governo di riconciliazione nazionale” che avrebbe incluso anche rappresentanti dell’Union Solidarity and Development Party (USDP), il partito sostenuto dai militari. Ma soprattutto rassicurarlo che non si sarebbe intrapresa alcuna azione nei confronti dei rappresentanti del vecchio regime, né sarebbero stati messi a rischio i loro affari. Se n’è avuta dimostrazione col primo atto ufficiale del nuovo Parlamento: l’elezione del presidente e del vicepresidente della Camera bassa. La prima carica è andata a Win Myint, membro del comitato centrale dell’NLD. L’altra, sempre con i voti dell’NLD, a T Khun Myat, rappresentante dell’USPD, personaggio strettamente legato ai militari e addirittura sospettato di collegamenti col traffico d’oppio.

 

In questo modo la Signora vuole evitare il ripetersi di quanto accaduto nel 1990. Anche quell’anno la NLD aveva vinto le elezioni concesse dalla giunta militare. E alcuni rappresentanti del partito non avevano resistito alla tentazione di ipotizzare una “Norimberga a Rangoon”. La reazione dei militari era stata immediata: le elezioni erano state annullate, i dissidenti imprigionati e il regime aveva iniziato un nuovo, più feroce ciclo di potere (in quel periodo, a segnare un formale distacco da ogni influenza occidentale, furono cambiati i toponimi: la Birmania divenne Myanmar, Rangoon Yangon…).

 

Nel 1990, però, la Signora era agli arresti domiciliari e non aveva il pieno controllo del suo partito. Era un’icona. Oggi all’interno dell’NLD c’è chi la chiama un “dittatore democratico”. “E’ pur sempre la figlia di un generale”, dice al Foglio uno di loro, riferendosi ad Aung San, eroe nazionale e artefice dell’indipendenza. “L’NLD non è un partito democratico”, conferma lo studioso americano David Steinberg. Suu Kyi lo dimostra con un controllo assoluto, “quasi paranoico” è stato definito, sulle strategie del partito. A cominciare dal candidato dell’NLD alla presidenza, che sarà scelto nel cerchio magico dei fedelissimi e sarà inevitabilmente destinato a divenire il nuovo presidente, eletto alla fine di marzo con un sistema molto complesso. Sempre che, nel frattempo, non si riesca a emendare la costituzione affinché possa essere eletta la stessa Suu Kyi.

 

In un’ottica occidentale tutto ciò conferma la “democrazia sottosviluppata”. Per altri si può ricondurre a un modello leninista, gramsciano. Ma qui siamo in Birmania, dove la Cina incontra l’India, il nuovo snodo di un’Asia che rivendica i “valori asiatici” in contrapposizione a quelli occidentali (definiti, con una certa arroganza, “universali”). In questo caso il modello è Singapore, la città-stato che materializza l’ideale confuciano, dove la popolazione è libera da preoccupazioni, sana, tecnologicamente avanzata, ricca, al sicuro. Ma paga questi privilegi con condizionamenti e controllo sociale.   

 

Che il prossimo presidente sia Aung San Suu Kyi o un suo avatar, ha predetto un osservatore locale, questo sarà “l’anno migliore che la Birmania abbia mai vissuto”. Oppure, come dice un antico proverbio, sarà “sopraffatta da sedicimila problemi”. Il primo e più difficile da risolvere è quello etnico. Le 135 minoranze riconosciute rappresentano più di un terzo degli oltre 51 milioni di abitanti (il resto è la maggioranza del gruppo Bamar). Molte di queste, come gli Shan, i Wa, i Kachin controllano il loro territorio con eserciti ben armati. Il precedente regime aveva cercato sia di combatterli, sia di inglobarli, sia di associarli nel traffico di droga. Ma nessuna di queste tattiche si è rivelata vincente, perché la giunta militare non voleva rinunciare all’idea di stato monolitico, centralizzato, dominato culturalmente dalla maggioranza Bamar. Aung San Suu Kyi, a quanto pare, punterebbe a un modello federale, che lasci maggior autonomia alle minoranze. Per alcuni equivale ad aprire il vaso di Pandora, secondo altri, un processo graduale di partecipazione politica e la formazione di governi ad interim potrebbe rafforzare la nascente democrazia, obbligata a tenere conto dei partiti etnici. Aung San Suu Kyi avrà bisogno dell’esercito per poter gestire ogni accordo da una posizione di forza e l’esercito avrà bisogno di lei per trasformarsi in forza di difesa anziché oppressione nazionale. In questo scenario, va precisato, non rientra la minoranza musulmana dei Rohingya, stanziati nel sud-ovest del paese. Non in quanto musulmani, ma perché considerati immigrati clandestini dal Bangladesh e non riconosciuti come etnia birmana. La Signora è stata spesso criticata per non averli difesi con maggior vigore. Ma, come ha ammesso, una presa di posizione rischierebbe di minare equilibri etnico-religiosi sin troppo fragili. Il problema andrebbe affrontato in seno all’Asean, l’associazione dei paesi del sud-est asiatico, che comprende nazioni a maggioranza islamica come l’Indonesia o la Malaysia, sinora poco disponibili all’accoglienza dei Rohingya. 

 

[**Video_box_2**]Il secondo fronte del nuovo governo è quello economico. Nonostante sia tra i più ricchi in materie prime, il paese è uno dei più poveri dell’Asia, penalizzato dalla corruzione di un regime cleptocratico e dalle sanzioni ad esso comminate dall’Occidente. Oggi le aspettative sono altissime. “Il governo dell’NLD beneficerà di un accesso senza precedenti a risorse e investimenti esteri”, ha dichiarato Herve Lemahieu dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. Il problema vero sarà la gestione di tutte queste risorse e investimenti, non solo in termini economici ma anche geopolitici, mantenendosi in equilibrio tra i paesi dell’Asean, la Cina, il Giappone e gli Stati Uniti. Questi ultimi, soprattutto possono essere decisivi: possono rafforzare la posizione di Aung San Suu Kyi sia nei confronti dell’esercito, sia dei cinesi, sia delle milizie etniche. Ma devono rinunciare a giudicare la Birmania come una “democrazia sottosviluppata”.

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