La lista dei target in Libia

Anche Bengasi teme le bombe delle operazioni contro lo Stato islamico

Daniele Raineri
La proposta di governo con 32 ministri, per accontentare tutte le fazioni, suona come un preludio rapido ai raid europei

Roma. Ieri a Bengasi il Consiglio rivoluzionario, quel gruppo misto di battaglioni islamisti che fa la guerra al governo di Tobruk, ha esposto la bandiera nazionale a tre colori verde nera e rossa nel quartiere di al Sabri, quindi sulla prima linea dei combattimenti che divide in due parti la città. Si tratta di una notizia significativa: il Consiglio spiega che teme di essere confuso con lo Stato islamico e di conseguenza bombardato da aerei stranieri, ed è un timore fondato perché in queste settimane stanno arrivando notizie e anticipazioni su un possibile intervento militare internazionale. Bengasi è sorvolata da droni – che i libici dicono essere americani e francesi, chissà con quanta fondatezza. E’ chiaro però a tutti che i droni sopra Bengasi stanno cercando bersagli da colpire sul fronte, che è occupato in un suo tratto – nel quartiere di al Leithi e anche a Sabri – da un contingente dello Stato islamico. Fonti del Foglio dentro il Consiglio rivoluzionario dicono che con il gruppo di Baghdadi c’è un rapporto di indifferenza pragmatica: battaglioni islamisti e Stato islamico combattono da separati (con scarso successo) contro le forze fedeli al governo di Tobruk  – che si fregiano del titolo di Esercito nazionale libico, cosa che è contestata dai sostenitori del governo di Tripoli.

 

I timori degli islamisti di Bengasi di finire per errore sotto le bombe assieme allo Stato islamico da ieri sono più forti perché il primo ministro designato dalle Nazioni Unite, Fayez al Serraj, ha presentato i nomi dei 32 ministri che vorrebbe per il suo esecutivo, un numero spropositato per accontentare le tante fazioni. In teoria quindi non si dovrebbe già più parlare di “governi di Tobruk e di Tripoli” come poche righe più sopra.

 

In pratica, i nomi dei ministri sono ancora allo stato di  proposta, devono essere ancora accettati e ci sono alcuni scontenti e mal di pancia. L’impressione, scrive da Tunisi Rana Jawad della Bbc, è che questo ventaglio ampio (un carrozzone) obbedisca alla necessità di non sforare troppo i tempi e le scadenze promesse alla comunità internazionale (il 16 dicembre si era detto che il governo sarebbe nato entro 40 giorni). La nascita dell’esecutivo è considerata anch

 

Il clima è quello che precede un intervento militare, sospeso tra i discorsi su una necessità ineluttabile, le informazioni solide e le congetture. Ieri il Wall Street Journal ha pubblicato un editoriale, “A Terror State in Libya”, che avvertiva che lo Stato islamico avanza nel paese nordafricano e che l’occidente oppone troppo poca resistenza. Sul sito francese Tribune, Giulietta Gamberini ha intervistato Ludovico Carlino, analista di Jane’s (una rivista militare attendibile), il quale spiega che se la tendenza dell’anno scorso continua, il numero di combattenti dello Stato islamico in Libia potrebbe raddoppiare nei prossimi dieci mesi – a partire dal numero di adesso, che secondo le stime più prudenti è di 3.000/3.500, secondo il governo tunisino è di 8.000 e secondo fonti algerine definite credibili è di 5.000.

 

Le operazioni militari sono già cominciate, ma non sono ancora ufficiali. Ieri ci sono stati altri bombardamenti aerei contro lo Stato islamico sulla costa, a Nawfaliyah e Bin Jawad (la sequenza delle città in mano al gruppo da ovest verso i campi petroliferi a est è questa: Sirte, Harawa, Nawfaliyah e Bin Jawad, molti droni anche lì, tanto vale familiarizzare). I bombardamenti non dichiarati sono cominciati dieci giorni fa e sono stati attribuiti a una cooperazione militare tra l’Egitto, che ci mette i caccia di fabbricazione francese, e la Francia, che aiuta con un aereo-cisterna per il rifornimento in volo e – ma siamo nel campo delle speculazioni – anche con informazioni di intelligence sui bersagli. A novembre aerei francesi da ricognizione avevano sorvolato proprio quella zona. Assieme a Bengasi, anzi più di Bengasi, la striscia di litorale tra Sirte e Bin Jawad fa parte della lista dei bersagli perché porta verso la zona dove si estrae il greggio, attaccata dallo Stato islamico durante la prima settimana di gennaio.

 

[**Video_box_2**]Anche l’Italia partecipa a questo clima di attesa. Martedì 12 c’è stata una riunione a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e i vertici della Difesa e dell’intelligence, e che a dispetto della nota ufficiale a proposito di “un giro di orizzonte sulla situazione e sulla sicurezza in Libia” è stata molto “operativa”. Tre giorni dopo l’aviazione ha spostato quattro aerei Amx e un drone Predator alla base di Birgi, vicino Trapani in Sicilia – per volare in ricognizione sulla Libia. Ieri il New York Times ha citato un politico libico che conferma che “operatives” italiani, una parola passepartout che spesso indica gli uomini delle forze speciali, sono sul campo per stringere relazioni militari e d’intelligence con alcune fazioni libiche. Per gli italiani una zona strategica resta Sabratha, a ovest, dove ci sono il sito Eni di Mellita e anche gruppi armati dello Stato islamico.

 

A Bengasi quindi si issa la bandiera nazionale, per evitare confusioni dal cielo. Quei battaglioni islamisti ricevono aiuti da Misurata e sono considerati da Tobruk “terroristi” legati a Tripoli (una loro fazione, Ansar al Sharia, ha rapporti diretti con al Qaida). Se ora sventolano il simbolo dell’unità nazionale è perché sentono che c’è pressione esterna per soprassedere sulle divisioni interne che fino a oggi si sono sempre imposte sulla Libia e assecondare la guerra europea e libica allo Stato islamico. Basterà la pressione a far funzionare le cose? Il ministro italiano degli Esteri Paolo Gentiloni, che pure è un grande sponsor dell’accordo di unità nazionale, lo definisce “ancora fragile”.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)