Martin Amis

L'Europa, i rifugiati, e la forza che con le unghie strappa sogni di purezza

Paola Peduzzi
Uno scrittore inglese è in Europa per presentare il suo ultimo libro, arriva in Germania, nel mezzo dell’Oktoberfest, fiumi di birra, di corpi, di urla, di brindisi, e scopre le ferite di questo paese, che sono ferite di un intero continente, e forse di una civiltà.

Uno scrittore inglese è in Europa per presentare il suo ultimo libro, arriva in Germania, nel mezzo dell’Oktoberfest, fiumi di birra, di corpi, di urla, di brindisi, e scopre le ferite di questo paese, che sono ferite di un intero continente, e forse di una civiltà. Lo scrittore è Martin Amis, e anche se dice che “Oktober”, l’articolo sul numero in edicola del New Yorker (un numero in cui è difficile andare oltre la cover, perché è troppo bella: è la prima copertina-video del magazine americano, parla di madri e di figlie, soprattutto dell’inadeguatezza delle madri), non è un diario, non è un saggio, è appunto un racconto, una “fiction”, in realtà Amis parla di sé, delle sue conversazioni a Monaco, delle interviste, degli incontri, del libro che sta leggendo e che s’intreccia con quel che vede. In questo pezzettino di “Eurasia”, come la definisce Amis, c’è la festa rumorosa più famosa della città e c’è la crisi dei rifugiati, che interrompe le telefonate, passa sugli schermi delle televisioni, diventa ansia.

 

Lo scrittore incontra Bernhardt, un fotografo iraniano-tedesco, che ha preso un treno la settimana prima da Salisburgo, “c’erano ottocento rifugiati a bordo”. E com’erano?, gli chiede lo scrittore. “Molto stanchi, molto affamati, molto assetati, alcuni bambini, altri anziani. Tutti vogliono venire qui, perché hanno amici e famigliari. La Germania sta cercando di essere accogliente e gentile, ho scattato delle foto, se vuoi te le faccio avere”. Certo, dice lo scrittore, ripensando all’immagine sui giornali di qualche giorno prima, una ventina di rifugiati in una stazione tedesca, accolti dagli applausi di alcuni cittadini, “alcuni di loro sorridevano, altri ridevano, e altri ancora respiravano profondamente, camminando più dritti, sembrava come se qualcosa alla fine si fosse ricomposto dentro di loro”.

 

Lo scrittore incontra Geoffrey, un businessman inglese sempre al telefono, con la mamma anziana che lo fa preoccupare, e nessuno dei suoi fratelli che se ne occupa. Non ha nulla di accogliente, Geoffrey, dice che i rifugiati “hanno trasformato i loro paesi in buchi infernali, e ora vengono qui” e anche se “non hanno ancora iniziato ad ammazzarci tutti, vorranno vivere a loro modo, no?”. Allo scrittore viene l’ansia, ripensa ai rifugiati che ha visto anche lui, a Salisburgo, che hanno camminato e camminato, e “hanno tutto, mappe e aggiornamenti (questi telefoni cellulari) ma non hanno una destinazione”, e pensa al libro che sta leggendo, “Letters to Vera”, le lettere di Vladimir Nabokov a sua moglie Vera, una vita in fuga.

 

Nell’intervista rilasciata al New Yorker in cui spiega il senso di “Oktober”, Amis dice che Nabokov ha vissuto esperienze estreme come quelle di ogni siriano di oggi, “sradicato e impoverito, Nabokov ha affrontato pericoli mortali per tre volte, scappando dai bolscevichi nel 1917, scappando dalla Berlino nazista nel 1937, scappando dalla Wehrmacht in Francia nel 1940”. Ora, scrive lo scrittore, sembra che “una forza tettonica abbia preso l’Europa e, usando le unghie, l’abbia sollevata e inclinata, politicamente, causando una pesante colata di fango sulle antiche illusioni, sugli antichi sogni di purezza e crudeltà”. E’ un “test storico” per un continente che sa cosa significa dover scappare, perché la guerra l’ha avuta nel cuore, e che pure tenta di difendersi dalle fughe degli altri popoli.

 

[**Video_box_2**]Amis torna a casa con la sua ansia, a Brooklyn dove ha scelto di vivere qualche anno fa lasciando il Regno Unito, trova la moglie e le figlie, si fa raccontare tutto, quando era lontano gli mancavano le notizie della famiglia, poi di notte non riesce a dormire, e prende il libro sul comodino, “Dark Continent” di Mark Mazower. Intanto ripensa a quel che i rifugiati possono portare nei paesi che li ospitano, “alle spore e ai tumuli” che già ci sono, e poi finisce: “‘Dark Continent’ non è un libro sull’Africa, il resto del titolo è: ‘Il Ventesimo secolo dell’Europa’”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi