Combatenti peshmerga giovedì durante l'offensiva a Sinjar (foto LaPresse)

I nostri “boots on the ground”

Parte da Sinjar il rilancio americano della guerra allo Stato islamico

Paola Peduzzi
I peshmerga assaltano la città irachena con la copertura aerea della coalizione. Alleanze e guai con gli yazidi e il Pkk

Milano. Ieri 7.500 peshmerga curdi hanno lanciato l’offensiva “Free Sinjar”: divisi su tre fronti hanno circondato la città irachena, con la copertura aerea delle forze americane e britanniche, che fin dall’alba hanno iniziato a colpire le postazioni dello Stato islamico. Assieme ai curdi ci sono anche battaglioni yazidi, cacciati da queste terre perché considerati dai jihadisti “adoratori del diavolo”. Negli strike sarebbero morti 70 jihadisti – ce ne sarebbero almeno 800 in città, sono appena arrivati, aspettavano l’offensiva.

 

Sinjar, nella storia di questa terza guerra irachena, è simbolica e strategica: è la città dove tutto è cominciato, con il massacro degli yazidi da parte degli islamisti agli ordini di Abu Bakr al Baghdadi. Nell’estate del 2014, quando cominciarono ad arrivare le immagini strazianti di questo popolo in fuga, con i racconti terribili dei sopravvissuti, le bambine stuprate e portate via come schiave, le donne stuprate e uccise, gli uomini ammazzati sul posto, l’Amministrazione Obama decise di intervenire in Iraq con gli strike aerei di una coalizione internazionale (di lì a poco la missione si allargò alla Siria). Sinjar è anche strategica: si trova sull’autostrada 47 che unisce Mosul a Raqqa, l’arteria principale dello Stato islamico: ieri i peshmerga ne hanno riconquistato 35 chilometri, interrompendo il collegamento tra le due “capitali”. Per più di un anno i curdi hanno resistito e presidiato due piccoli container sopra un’altura che affaccia su Sinjar: da sotto sparavano di continuo, ma loro hanno tenuto la posizione.

 

I convogli e i combattenti curdi sono arrivati percorrendo una strada che avevano già fatto, sulla via c’erano ancora carcasse di auto e vestiti sporchi: erano già stati cacciati una volta dallo Stato islamico. Il sindaco di Sinjar, Khalil Mahma, parlando ai giornalisti da quella famosa altura che guarda la sua città, ha detto: “Riprendersi Sinjar è come riprendersi l’onore dei curdi e degli yazidi”. Un soldato yazida, parlando a Mike Giglio di Buzzfeed a Sinjar, ha detto: “Ricordo le urla delle donne e dei bambini, quelle immagini mi tornano in mente mentre oggi andiamo a riprenderci Sinjar”. L’attaccamento alla terra, per gli yazidi e per i curdi, è una faccenda identitaria: potevamo scappare in Europa, ha detto un comandante curdo, ma siamo rimasti qui, perché è qui che vogliamo stare.

 

L’offensiva era nell’aria da tempo, ed è per questo che anche lo Stato islamico è riuscito a ricostituire un miniesercito dentro la città. Ma ci sono stati ritardi a causa delle divisioni tra i peshmerga e il Pkk, con al centro gli yazidi. Quando i jihadisti arrivarono nel 2014, i peshmerga, che difendevano Sinjar, furono costretti ad arretrare lasciando scoperti gli yazidi che furono così massacrati. Qualche mese fa alcuni affiliati siriani del Pkk hanno cercato di avvicinarsi a Sinjar dalla Siria e molti combattenti yazidi si sono uniti, perché non si fidavano più dell’assistenza dei peshmerga. Questa frammentazione ha impedito un’operazione coordinata, fino a ieri, quando i peshmerga, gli unici ad avere un collegamento diretto con la coalizione a guida americana (il Pkk è sulla lista dei gruppi terroristici dell’Europa e degli Stati Uniti), sono arrivati in forze, con almeno un battaglione yazida di 400 combattenti.

 

[**Video_box_2**]Il generale Aziz Waisi, comandante della Zeravani Force, la forza d’élite curda, ha invitato alla cautela: “Abbiamo i nostri piani, ma non tutto va secondo i piani. E’ una guerra, abbiamo un nemico preciso e lo Stato islamico riserva sempre sorprese”. E’ ancora presto per dire che l’autostrada 47 è interrotta, ma le pressioni da Washington sono alte. Bisogna dimostrare che lo Stato islamico si può “ridurre” ancorché “distruggere”, per questo i bombardamenti americani sono ricominciati dopo un rallentamento determinato dall’arrivo degli aerei russi. E sul campo i nostri “boots” – addestrati anche dagli italiani a Erbil – sono sempre gli stessi: i peshmerga, gli unici in grado di passare un inverno su una collina per tornare a casa.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi