Il primo ministro indiano Narendra Modi (foto LaPresse)
Il problema dell'India con la religione
Quando l’anno scorso Narendra Modi è stato eletto primo ministro dell’India, gli osservatori avevano solo una preoccupazione: non la sua leadership, non gli eccellenti risultati economici raggiunti nello stato del Gujarat di cui è stato governatore, ma le minacce alla libertà religiosa. Modi è leader del partito nazionalista indù Bjp, democratico ma intollerante, e sotto il suo governo erano già avvenute violenze di carattere religioso contro i non indù, soprattutto musulmani. Una volta eletto, Modi è riuscito a tenere a bada i suoi, e ha cercato di includere le minoranze, ma negli ultimi tempi l’estremismo ha prevalso: in trenta giorni tre musulmani sono stati uccisi da gruppi di estremisti o dalla folla inferocita perché sospettati di aver mangiato carne di mucca, animale sacro per l’induismo, e il caso terribile di cronaca si è trasformato in scandalo politico quando i compagni di partito di Modi hanno sostenuto pubblicamente gli assassini.
Il ministro della Cultura ha definito gli omicidi un “incidente”, un parlamentare del partito di governo ha chiesto di condannare a morte chi consuma carne bovina e il governatore dello stato di Haryana nel nord ha risposto alla crisi attaccando la popolazione musulmana – che non è l’unica vittima dell’intolleranza. Nell’ultimo anno anche la popolazione cristiana, minoranza nel paese, ha subìto attacchi violenti, gli indù hanno bruciato chiese e picchiato e minacciato religiosi e fedeli cristiani. Modi ha sguinzagliato il suo principale consigliere politico, il presidente del partito Amit Shah, per risolvere la crisi. Che più ancora che politica è di idee: il premier vuole far diventare l’India una superpotenza, ma parte del paese manca ancora dei fondamentali.
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