Alcune immagini propagandistiche palestinesi che incitano ad accoltellare gli israeliani

La lama del jihad sulla gola d'Israele

Giulio Meotti
“Cosa spinge un ragazzino palestinese a morire per uccidere gli ebrei con un coltello? L’islam radicale”. Quattro morti ieri a Gerusalemme in nome della “resistenza popolare” con cui hanno flirtato anche gli inviati Ue

Roma. Il jihad palestinese ha un detto molto evocativo che sta a indicare l’atto di macellazione dell’israeliano tramite un coltello: “Quando vi sgozzeremo, vi sgozzeremo per Netanya”. E’ il confine più stretto e fragile dello stato ebraico, i cinque chilometri che separano Netanya dalla città palestinese di Tulkarem. E’ la gola più sottile e più esposta di Israele.

 

Due giorni fa un imam di Gaza ha brandito un coltello durante un sermone e ha invitato i fedeli dell’islam a seguire l’esempio di Khaybar, quando Maometto nel 627 partecipò di persona allo sgozzamento di ottocento ebrei della tribù Banu Qurayza. E’ anche uno degli slogan più usati nelle strade palestinesi: “Khaybar, Khaybar, oh ebreo, l’esercito di Maometto tornerà”. Nelle stesse ore Nabil Abu Rudeineh, il portavoce del presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, elogiava le gesta del quindicenne palestinese che aveva appena accoltellato e lasciato in fin di vita due ragazzini israeliani a Pisgat Zeev, un sobborgo di Gerusalemme. Alcune settimane prima un video di Hamas aveva chiamato alla “Rivoluzione dei coltelli”. Si vedono dei terroristi palestinesi che affilano le loro lame e incitano: “Ammazzate gli ebrei-scimmia, macellateli ogni giorno”.

 

Questa “Intifada del coltello” ha già fatto sei morti in Israele e decine di feriti nel silenzio dell’Europa, contro cui protesterà domenica prossima, di fronte all’ambasciata israeliana, la comunità ebraica di Roma convocata da Ruth Dureghello. I coltelli sono gli strumenti di una campagna religiosa i cui mandanti vanno cercati nelle moschee palestinesi, nelle televisioni palestinesi, nei social network palestinesi. La chiamano “amaliya fida’iya”, operazione di autosacrificio, perché l’attentatore muore esattamente come nelle stragi dei kamikaze del passato. E’ il grido stesso del jihad palestinese, “Itbach al Yahud”, macellate gli ebrei, che rimanda all’uso del coltello da cucina.

 

“La domanda oggi è cosa spinge un ragazzino a morire per uccidere gli ebrei con un coltello”, dice al Foglio il professor Eyal Zisser, preside della Facoltà di scienze umanistiche dell’Università di Tel Aviv. “E’ un ritorno al terrorismo degli anni Trenta del Novecento, a una dimensione religiosa. Sono motivati dall’islam radicale e dall’odio per gli ebrei, non da un progetto palestinese nazionale. E’ come il 1929 a Hebron”. Il riferimento di Zisser è all’origine del terrore palestinese con il famoso pogrom di Hebron, quando non esisteva ancora lo stato di Israele e gli arabi tagliarono piedi, dita e teste, evirarono gli uomini e poi li sgozzarono, a decine. Ebrei ortodossi, come Yeshayahu Krishevsky, il rabbino ucciso ieri a coltellate a Gerusalemme. Ori, l’autista dell’autobus che nel quartiere di Armon Hanatziv è stato attaccato dai terroristi, ha detto che “li stava macellando” uno dopo l’altro. Tre ebrei israeliani uccisi e decine di feriti, è il bilancio della sola giornata di ieri.

 

“Lo spirito maligno di follia dell’Isis è il vento in coda e forse anche la causa dell’ondata di terrore che ci ha colpito nei giorni scorsi”, continua Eyal Zisser. “L’ondata di violenza è una prova che il movimento nazionalista palestinese è in declino, sembra aver perso la sua rilevanza e forse ha raggiunto la fine. Ma questo movimento, ancora una volta, è in grado di mobilitare le masse con il suo appello per liberare la Palestina. I palestinesi si stanno muovendo all’indietro di quasi un secolo, quando il Gran mufti di Gerusalemme Haj Amin al Husseini, in nome di un presunto pericolo per al Aqsa, scatenò la rivolta araba del 1930. Dobbiamo renderci conto che questa forma di estremismo non può essere fermata da muri di cemento e recinzioni metalliche, ma solo attraverso la determinazione e la forza d’animo, la nostra barriera di sicurezza reale”. Infatti molti attentatori avevano la carta di identità israeliana, erano cittadini di Gerusalemme est. E’ d’accordo con Zisser Efraim Inbar, direttore del Besa Center e considerato uno dei consulenti più ascoltati dal premier Benjamin Netanyahu, che al Foglio spiega: “E’ il richiamo dell’islam radicale. Questa ondata di terrorismo non ha nulla a che fare con l’‘occupazione’, i palestinesi stanno infatti uccidendo gli ebrei anche a Petah Tikva e Afula. E’ invece l’effetto del jihad mondiale, eccitato dall’accordo sul nucleare iraniano”.

 

I palestinesi la chiamano “resistenza popolare”. E come ha spiegato un rapporto del Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center, “la ‘resistenza popolare’ fa uso massiccio della violenza e impiega armi bianche, come molotov, pietre e coltelli”. Trenta “comitati popolari” sono stati creati per manifestazioni contro la barriera di sicurezza e le comunità israeliane nei Territori, spesso con la partecipazione di attivisti delle organizzazioni non governative europee. L’Autorità palestinese incoraggia la partecipazione di media e attivisti occidentali, perché “aumentano la sua esposizione e consentono di demonizzare Israele nell’arena internazionale”. All’ottava Conferenza internazionale di Bil’in per la Resistenza popolare hanno partecipato anche John Gatt-Rutter, rappresentante dell’Unione europea presso l’Autorità palestinese, e Sir Vincent Fean, il console generale britannico a Gerusalemme. Tra i partecipanti, anche Robert Serry, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il medio oriente. Di fronte a questi diplomatici, il governatore di Ramallah, Mahmoud al Aloul, ha giustificato “ogni forma di resistenza” contro Israele. Da giorni, i media dell’Autorità palestinese sono pieni di incitamento all’odio, di storie su come Israele “giustizia” i terroristi palestinesi che avevano attentato alla vita dei cittadini dello stato ebraico, con paragoni fra i nuovi attentatori palestinesi armati di coltello e Mohammed al Dura, il ragazzino palestinese la cui morte, falsamente attribuita all’esercito israeliano, nel 2000 scatenò la Seconda Intifada.

 

[**Video_box_2**]I coltelli branditi dai boia dello Stato islamico, che hanno decollato masse di “infedeli”, sono assurti a simbolo del male. Quelli che da due settimane terrorizzano Israele sono giustificati e compresi. Come se le lame dei palestinesi fossero meno affilate. Come se il sangue degli israeliani fosse meno rosso di quello che bagna il Tigri e l’Eufrate. Come se lo stato ebraico dovesse offrire al mondo la sua sottile gola.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.