Un carro armato russo, catturato dall'esercito ucraino, a Kiev (foto LaPresse)

La guerra in Ucraina è finita e non ce ne eravamo accorti

Anna Zafesova
Putin scarica il Donbass troppo costoso, le truppe si ritirano e si cercano compromessi. Il rapporto sull’MH17

Milano. La guerra in Ucraina è finita. Non se ne è accorto nessuno, dietro agli effetti speciali dei missili di Putin sulla Siria. Il Donbass è sparito dai tg occidentali, ma soprattutto da quelli di Mosca, che aprono con relazioni strombazzanti dei successi militari russi sulla via di Damasco. Le notizie dall’est ucraino sono poche, brevi e straordinariamente importanti. Lunedì Gazprom ha ripreso le forniture di metano all’Ucraina, regime pre-guerra, dopo aver incassato da Kiev un anticipo. Qualche giorno prima le miniere del Donbass sotto il controllo della “Repubblica popolare di Donetsk” hanno ripreso a inviare carbone all’Ucraina, che ha sbloccato a sua volta alcune forniture alle enclave ribelli. Ma soprattutto non si spara più, e le parti belligeranti non solo allontanano truppe e armamenti dalla linea del fronte, ma, in una sintonia inedita, confermano il ritiro degli avversari.

 

Il passaggio cruciale dopo il quale si può parlare di pace (come hanno già provato timidamente a fare i leader separatisti) c’è stato sabato scorso, quando il “presidente” di Donetsk Alexander Zakharchenko ha posticipato le elezioni locali dal 18 ottobre di quest’anno al 20 aprile 2016, imitato dal leader di Lugansk Igor Plotnitsky (che le ha spostate al 21 febbraio). Una decisione preceduta da un balletto diplomatico con Merkel e Hollande, e applaudita sia da Mosca che da Kiev. Dietro c’è una rivoluzione: il voto di ottobre nelle “repubbliche” non riconosciute, secondo le regole dei separatisti, doveva dare un’ulteriore legittimazione alle leadership dei guerriglieri e sancire la “sovranità” di Donetsk e Lugansk. Il rinvio di sei mesi (che in queste condizioni può essere anche equivalente a un rinvio perenne) significa che le enclave filorusse si avviano sul percorso che – come fu stabilito già dagli accordi di Minsk del febbraio scorso – le riporterà a essere “alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk all’interno dell’Ucraina”. A condizioni tutte da definire.

 

E’ quello che gli ultranazionalisti russi, quelli che, per intenderci, considerano Putin un debole venduto agli americani, hanno temuto come lo “scaricamento del Donbass”. Che Mosca ha accettato (pur senza firmare nulla) già a Minsk, sotto i colpi delle sanzioni, del barile dimezzato e dell’assenza di una vittoria facile, come in Crimea. Per qualche mese i vari clan del Cremlino – i “falchi” dei servizi e dell’esercito, gli spin doctor in borghese guidati da Vladislav Surkov e altri – si sono contesi i vari dossier del Donbass, mentre ideologi della “Novorossia” – nessuno si ricorda più che l’Accademia delle scienze stava preparando un volume definitivo sulla storia di questo paese inesistente – come Dmitry Olshansky cominciavano a teorizzare che gli ucraini in realtà non erano  lo stesso popolo dei russi, e quindi andavano lasciati al loro destino. Alla fine dell’estate sono stati gradualmente eliminati i comandanti separatisti più estremisti. Qualcuno veniva ucciso in una faida interna, altri hanno perso le cariche dopo un passaggio “nello scantinato”, come il presidente del “Parlamento” di Donetsk Andrei Purghin, arrestato ed emerso dalla prigione dopo aver dato le dimissioni. I battaglioni della guerriglia, come il mitico Vostok, vengono riformati, gli idoli delle fanzine patriottiche, come il comandante Motorola, al secolo Arseny Pavlov, spuntano a Mosca, coperti di gagliardetti e medaglie improbabili, sostituiti nell’apparato del Donbass da consumati burocrati anteguerra. E l’ex ministro della Difesa di Donetsk Igor Strelkov, rimpatriato (è cittadino russo, come Motorola) già dopo la tragedia del Boeing, parla di “golpe” e accusa Putin di essersi “piegato alle sanzioni americane”.

 

A Donetsk e Lugansk restano i pochi leader autoctoni della rivolta, come Zakharchenko e Plotnitsky, e il negoziato dei prossimi mesi avrà come argomento principale il loro futuro. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, nonostante le pressioni di Berlino e Parigi, ritrovarseli come governatori delle regioni tornate all’ovile è inaccettabile, come hanno dimostrato gli scontri a Kiev quando la Rada ha votato una mini autonomia per i distretti del Donbass. Vadim Denisenko, parlamentare vicino al presidente ucraino, traccia la linea di non ritorno: “Niente amnistia per i criminali di guerra”. Il tedioso negoziato dei vari gruppi di lavoro nella cornice di Minsk – elezioni locali prima o dopo il ritiro delle truppe, prima della concessione dello statuto speciale (e quanto speciale) o dopo, con regole, partiti e media ucraini o senza – verte alla fine intorno a questo problema: come salvare la faccia (e la pelle) ai separatisti scaricati e al cauto Poroshenko.

 

Il nuovo obiettivo è la Siria

 

Il Donbass è stato “scaricato” anche perché costava: da mesi pensioni, salari, forniture, scuole e ospedali erano a carico di una Russia in recessione. Una nuova escalation militare avrebbe avuto un prezzo economico e politico insostenibile. La Siria è stata un’occasione da cogliere al volo. Anche perché, come sostengono alcuni ex amici di Putin, il presidente russo è volubile: si appassiona a un progetto, entra nei suoi minimi dettagli con una precisione quasi ossessiva, per poi passare a un altro dossier. Adesso torna a sembrare vincitore, il presidente siriano Bashar el Assad appare un alleato più grato degli inaffidabili ucraini, lo sfoggio di potenza militare russa fa impallidire la Cnn dei tempi di Desert Storm e il Cremlino orchestra una crisi internazionale, e non una guerriglia di periferia in una oscura regione mineraria dell’ex Urss. La Siria non solo ripara l’autostima, ma placa i reduci russi del Donbass, che dopo il rimpatrio avrebbero potuto fomentare il malcontento nazionalista: i più irriducibili potranno sfogarsi a Homs, e si parla già di mandare “volontari” da Donetsk a Latakia.

 

[**Video_box_2**]Poroshenko si riprende un Donbass devastato, costato almeno 10 mila vite umane. Forse avrebbe preferito lasciarlo ai russi. Il 1° gennaio 2016 entra in vigore l’accordo di associazione economica tra Ucraina e Unione europea. Quello che fu il motivo della guerra tra Mosca e Kiev, se qualcuno se lo ricorda. E ieri il Consiglio di sicurezza dei Paesi Bassi ha pubblicato il rapporto dell’indagine sul Boeing malese abbattuto sul Donbass il 17 luglio 2014: è stato un missile Buk 9M38 con testata 9H314M, made in Russia, sparato da un territorio che gli ucraini e gli esperti indipendenti dicono fosse controllato da separatisti, anche se secondo Mosca era in mano alle truppe di Kiev. In attesa del Tribunale internazionale, bloccato dai russi con un veto all’Onu, i parenti delle 298 vittime vogliono chiedere i danni al Cremlino.

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