Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon (foto LaPresse)

Incubo Amazon

Redazione
Bezos contro il pezzo assassino del New York Times sui dipendenti che piangono. La guerra sotterranea

Roma. Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon, trema tutte le volte che apre il New York Times. Tra il più grande venditore di beni al dettaglio d’America (Amazon ha superato in valutazione di mercato Walmart giusto la settimana scorsa) e il più importante giornale americano è in corso una guerra non dichiarata, che secondo i maligni è iniziata due anni fa, quando Bezos si è buttato nel mondo dell’editoria comprando il Washington Post, arcirivale del Times. Nel tempo la Grey Lady, soprattutto per mano del giornalista David Streitfeld, ha definito Amazon come un nemico dei libri e dei lettori, come un pericolo per la cultura, ha fatto da megafono alle campagne di scrittori ed editori contro la più grande libreria del mondo. Gli articoli critici sono la norma, ma sabato a Bezos deve essere andato di traverso il caffè. Un articolo firmato da Streitfeld e da Jodi Kantor, intitolato “Inside Amazon: Wrestling Big Ideas in a Bruising Workplace”, mette in fila una serie di aneddoti terrificanti in cui Amazon è descritta come un luogo di lavoro inumano, in cui i dipendenti sono resi succubi di un’etica lavorativa assurda quanto assoluta, la pietà è considerata un intralcio e chi non ce la fa è lasciato indietro.

 

I dipendenti intervistati dal New York Times (quasi tutti ex dipendenti, alcuni anonimi) dicono che chi non sa garantire turni lavorativi da più di 80 ore a settimana è valutato come improduttivo, che i lavoratori sono incitati a competere gli uni contro gli altri al punto da distruggere carriere, che la delazione ai superiori è istituzionalizzata, che in certi uffici è normale vedere professionisti affermati piangere alle loro scrivanie con le mani sulla faccia dopo una riunione brutale. Un dipendente che ha ricevuto una diagnosi di cancro è stato licenziato quando la sua produttività è calata, lo stesso è successo a una donna che ha avuto un aborto spontaneo. Dentro alla compagnia i dipendenti sono chiamati Amabot, i robot di Amazon, macchine al servizio della distopia algoritmica di Jeff Bezos, dove il turnover dei dipendenti è altissimo, e quasi nessuno resiste più di cinque anni. Amazon, si legge nel pezzo, “sta conducendo un esperimento su quanto allo stremo può portare i colletti bianchi”. La compagnia è conosciuta come uno dei posti di lavoro più competitivi e frugali della Silicon Valley, dove ai dipendenti non sono forniti i benefit, dalle palestre alle mense gratuite, di cui godono i lavoratori per esempio di Google e Apple, e già in passato erano uscite notizie sulla sua etica lavorativa asfissiante (famose le proteste dei dipendenti dei magazzini in Germania, tenuti sotto controllo da un servizio di vigilanza ad hoc), ma un reportage come quello del Times trasforma l’azienda in un inferno. Bezos, ovviamente, non ha preso bene l’articolo, e ieri ha diffuso un comunicato in cui scrive che “non riconosce” la descrizione di Amazon, e che se dovesse avere notizia di qualche violazione questa sarà punita.

 

[**Video_box_2**]Ma il fondatore non è stato l’unico a difendere l’azienda. Il ceo di Twitter, Jack Dorsey, ha attaccato gli aneddoti “fuori contesto” del Times, e il famoso investitore Marc Andreessen ha scritto che delle centinaia di dipendenti di Amazon con cui ha parlato “nessuno pensava che Amazon non fosse un buon posto dove lavorare”. Su internet sono già apparsi molti post di dipendenti che difendono l’azienda, ma ammettono di aver sentito parlare di certi “racconti dell’orrore”. Per molti la cultura campale di Amazon non è certo un dramma: i dipendenti ne escono fuori così combattivi che sono i più ricercati nel mondo del tech, o si trasformano a loro volta in imprenditori di successo. Questo lo riconosce anche il Times.

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