Poster con la faccia di Hillary che invitano a non usare certe parole (segreto, ambizioso ecc.: questo è l’ordine di scuderia) sono comparsi a Brooklyn all’annuncio della sua corsa elettorale

Nonna Hillary non è hipster

Cosa ci è andata a fare la Clinton a Brooklyn? C’entrano i calcoli, le comunità e i vicini di casa. Esistono tanti mondi quante sono le comunità che abitano il quartiere, ma nella vulgata c’è solo l’immagine cool e creativa.

Esistono principalmente due Brooklyn, magari tre. Forse esistono tante Brooklyn quante sono le comunità che abitano, mischiate ma con un certo grado di separazione, questa città ridotta al rango minore di borough, vasta appendice urbana agganciata alla capitale del pianeta terra da un sistema di ponti e tunnel. C’è un’identità comune agli abitanti di Brooklyn, un tratto caratteristico che ha a che fare con l’inflessione linguistica, una certa struttura suburbana, la coscienza di essere immigrati, orgogliosi al contempo di sentirsi brooklynites e di essere italiani di Bensonhurst, caraibici di Flatbush, neri di Brownsville, ebrei di Crown Heights, russi di Brighton Beach, cinesi di Sunset Park, polacchi di Greenpoint. Anche la subalternità a Manhattan, il terribile pensiero di essere soltanto gente bridge-and-tunnel, forestieri che sciamano nella vera città come nemmeno i turisti con i selfie stick a Times Square, è in qualche modo un collante.

 

Insomma, essere di Brooklyn significa molte cose, è una faccenda complicata, nessuno lo capisce veramente, lo ha scritto Thomas Wolfe nell’idioma locale già nel 1935: “Dere’s no guy livin’ dat knows Brooklyn t’roo an’ t’roo, because it’d take a guy a lifetime just to find his way aroun’ duh goddam town”. Perciò si tende a semplificare: nel racconto popolare, si diceva, esistono principalmente due Brooklyn, magari tre. Una è la Brooklyn-cool, genere “scrittore di Brooklyn”, il paradiso dei pantaloni skinny, delle barbe, delle camicie scozzesi, delle biciclette, del cibo biologico, della birra artigianale senza conservanti, senza glutine, senza solfiti, senza lavoro sottopagato alle spalle, senza alcol, senza schiuma, a volte senza birra. E’ il catalizzatore dei creativi di tutto il paese, se qualcosa di rilevante succede, a livello di tendenze e guizzi geniali, è statisticamente probabile che succeda a Brooklyn. A Manhattan l’arte si vende, si piazza, si consuma; a Brooklyn si crea.

 

Nelle strade di Brooklyn-cool è ambientato “Girls”, vivono Martin Amis e Spike Lee, c’è la maestosa sede di Vice, Jonathan Safran Foer abita a due passi dal quartier generale di Jay-Z, in ogni angolo dell’enclave c’è la casa di un Paul Auster o è cresciuto un Mel Brooks, si producono raffinati giornali indie, si fondano avanguardie istantanee, si distruggono vecchi miti e se ne creano di nuovi, si fanno brunch a tutte le ore. Per statuto, ciascuno si lamenta della gentrification che ha contribuito a generare. L’ambizione massima dell’abitante di Brooklyn-cool è reinventarsi in modo originale, unico, e a forza di perseguire l’unicità finisce per essere identico a tutti gli altri. E’ l’effetto hipster, l’anticonformismo a stampo che il professor Jonathan Touboul ha codificato in un complicato algoritmo (fra parentesi: codificare le cose in un complicato algoritmo è hipster) e che rende Brooklyn-cool una specie di esperimento sociale in cui tutti fanno più o meno le stesse cose senza che nessuno lo abbia imposto, e tutti si sentono molto liberi e unici nel farle. Soprattutto, gli abitanti di questa entità sociologicamente rilevabile si sono emancipati dal complesso di inferiorità verso Manhattan, e anche se talvolta per qualche motivo devono andarci, è socialmente accettabile, anzi assai appropriato, lamentarsi in qualunque conversazione del ritmo frenetico, dell’inquinamento, della vita disumana, dei grattacieli, delle signore mummificate di Park Avenue, dello snobismo, di Wall Street. Loro non chiamano Manhattan “Da City”, perché il luogo dove abitano non è un satellite, ma un pianeta.

 

Brooklyn-cool occupa una minuscola percentuale di un borough che conta 2,6 milioni di abitanti. Fosse ancora una città a sé stante, com’era prima del 1896, sarebbe la quarta più popolosa degli Stati Uniti, dietro a New York, Los Angeles e Chicago, e davanti a San Francisco, ma solo un suo brandello minoritario fa la vita bella e creativa di Tao Lin o Lena Dunham. Questi parlano un inglese internazionale, senza accento (non dicono “cawfee” per “coffee”, non scambiano “aks” con “ask”, non hanno mai detto “fuhgeddaboudit”) e più o meno volontariamente sono i promotori di un brand talmente forte e riconoscibile che è diventato, per estensione, un’etichetta applicabile all’intero distretto, tanto che dire “sono di Brooklyn” implicitamente suggerisce creatività, pelle bianca e attività da bohémien con carta di credito gold, ma in qualche modo depurate dall’avidità e dalla sulfurea logica di potere che domina Manhattan. Nella vulgata non c’è altra Brooklyn al di fuori di Brooklyn-cool.

 

Nella realtà, fra Williamsburg e East New York c’è la stessa differenza che c’è fra un flute di champagne e un boccale di diesel. East New York è soltanto uno dei pezzi del mosaico triste e pericoloso della seconda Brooklyn, quella che non si vede e che non rileva nella percezione globale. Che Lloyd Blankfein sia cresciuto lì, nell’area con il più alto tasso di omicidi della città, è una prova che chiunque in America può diventare l’amministratore delegato di Goldman Sachs, non che i quartieri più oscuri e pericolosi di questa Brooklyn fantasma meritino di essere considerati. Questa Brooklyn è fuori dalle rotte della Lonely Planet, fuori dagli articoli dei magazine patinati, fuori dagli obiettivi dei fotografi, dall’interesse dei politici, dai siti che segnalano cose interessanti da fare nel caso abbiate una mezza giornata libera, è un non-luogo, uno sfortunato accidente facilmente evitabile in una città dove il turismo si muove essenzialmente sulla direttrice nord-sud, quasi mai su quella est-ovest.

 

In mezzo, fra la gioventù artistoide, le famiglie con coppie di gemelli perfetti su passeggini costosi come scooter, e il ghetto con le pistole e la polizia che finge di non vedere c’è la terza Brooklyn, quella normale, fatta di gente che parla troppo, la città del ceto medio-basso non particolarmente riflessivo, degli italoamericani vestiti male, dei romanzi talmudici di Chaim Potok e di quelli ultraviolenti di Hubert Selby, della piccola e grande mafia sotterranea, delle brownstone tenute insieme in qualche modo, delle mode ferme a cinque anni fa, dei block party, del ferry dell’Ikea che porta a Manhattan gratis, la Brooklyn che fa a sportellate con i monovolume degli ebrei hasidic sulla Brooklyn-Queens Expressway e che in “Da City” va il meno possibile, e quando lo fa si sente come in trasferta.

 

E’ la Brooklyn degli “everyday american”, come direbbe Hillary Clinton. Perché tutto il preambolo serve a dare il contesto per inquadrare la prima, grande scelta della campagna elettorale di Hillary, quella di fare base a Brooklyn, decisione puramente d’immagine – Hillary non ha alcun legame personale con il borough, anzi sta a Brooklyn come Paris Hilton sta a Scampia – che dev’essere costata al cerchio magico dei consiglieri mesi di riflessioni e calcoli, di pianificazione strategica, di sondaggi d’opinione, di analisi di big data.

 

La magione di Chappaqua, lassù molto oltre la città, è culturalmente lontana anni luce da Brooklyn o perlomeno dall’immagine che dà di sé al pubblico votante. Quando è trapelata la notizia che Huma Abedin, consigliera e figlia acquisita, stava esplorando edifici nell’area, istintivamente tutti hanno pensato a una grottesca svolta hipster di nonna Hillary, che nei panni dell’improvvisata rottamatrice tenta di balbettare la lingua dei millennial per conquistare il gruppo demografico più popoloso e al quale è meno avvezza. Sarebbe stato troppo perfino per lei, ma in qualche modo bisognava cambiare.

 

Otto anni fa la campagna era acquartierata ad Arlington, quella del cimitero, sul lato fighetto e a bassa pressione fiscale del Potomac, roba da insider consumati. Perfino nella tetra Chicago di Obama tirava un’aria più frizzante, e s’è visto. “Penso che probabilmente non la addobberà con un gruppo di ragazzi con la barba, divani vintage e frigoriferi pieni di Brooklyn Lager”, ha rassicurato un negoziante di Williamsburg parlando con il New Yorker, ed effettivamente quando è stata ufficializzata la location è stato chiaro che Hillary non giocava a fare la piccola hipster. Ma l’operazione di rebranding ideologico e comunicativo è certamente in piedi, e Brooklyn – lo abbiamo detto – vuol dire tutto e niente, è un nome che si può piegare al proprio servizio, ora per raccontarsi come un laboratorio creativo del progressismo smart con la freccia che punta in avanti, ora per rappresentarsi come “everyday”, e a un certo punto non è escluso che possa tirare fuori la retorica delle periferie esistenziali. Manhattan mica te lo offre questo ventaglio di possibilità, figurarsi Arlington o Chappaqua. L’edificio di One Pierrepont Plaza scelto da Hillary è nel mezzo di Brooklyn Heights, che è il primo quartiere d’America, e come tutti i primi di qualunque classe coltiva un’invincibile senso di superiorità su tutti gli altri quartieri della città.

 

[**Video_box_2**]Per capirlo intuitivamente basta farsi una passeggiata fra i viali alberati e le case di mattoni rossi con vetrate immense in cui si intravede il tocco del designer di interni. Roba incravattata e con il Suv che va a dormire presto, non un’oasi di creatività dove tutti si reinventato giorno e notte. Nello stesso edificio in cui Hillary ha affittato due piani c’è anche una sede di Morgan Stanley, per dire. Non è strano che ci sia stata una sollevazione dell’élite locale quando Bloomberg ha fatto costruire proprio sotto la Promenade, la terrazza da cui Brooklyn Heights guarda compiaciuta lo skyline di Manhattan, un parco che è un gioiello di arredo urbano ma ha la terribile colpa – secondo gli abitanti – di offrire campi da calcio, basket, tavolacci di legno e barbecue gratuitamente, cosa che attira un pubblico che altrimenti non avrebbe ragione di sciamare da quelle parti, portandosi tutti i contrattempi sociali del caso.

 

Un pubblico che non rientra nei canoni dell’abitante di Brooklyn Heights: il 70 per cento è bianco, lo stipendio medio è 95 mila dollari l’anno, l’età poco più di 35 anni, sono i rampolli di famiglie storiche che abitano le brownstone silenziose oppure trader di Wall Street che approfittano della convenienza della location, proprio dall’altro lato del fiume rispetto a downtown Manhattan, e si godono il relativo calo di attrattiva degli storici quartieri di Manhattan, almeno presso l’ambiente autoreferenziale che frequentano. E’ tempo di ritorno a una vita che appare semplice, leggera, suburbana; l’assoluta necessità di essere al centro del mondo, bombardati costantemente da input e nel crocevia di vite più rilevanti e di successo della propria non è più di moda.

 

E’ tutta apparenza, s’intende, ma nel gran falò delle vanità newyorchese la percezione delle cose vale molto più delle cose stesse. Devono aver pensato anche a questo tutti gli amici, i consiglieri, gli aiutanti, i collaboratori, gli alleati, i consulenti d’immagine che hanno consigliato a Hillary di mettere le radici della campagna elettorale a Brooklyn, per intervenire sull’Hillary percepita con un’operazione di lifting dell’immagine che parte dal più clintoniano e snob dei quartieri di Brooklyn per concludere un’audace fusione fra brand. Da una parte l’etichetta dei Clinton, che sa di potere dinastico, trasformismo selvaggio, email segrete, consiglieri crudeli, la vera House of Cards del potere democratico; dall’altra il nome di Brooklyn, che sintetizza tutto quello che l’America vorrebbe diventare, realtà creativa affermata ma allo stesso tempo in divenire, tutta sbilanciata verso il futuro e ansiosa di diventare qualcosa di ancora diverso da quel che è oggi. Cosa cerca Hillary se non la possibilità di un altro futuro, di un nuovo inizio, la liberazione dalla zavorra di quello che gli americani sanno già di lei, della sua politica, della sua famiglia? A Brooklyn si può tentare di mettere le basi per un nuovo inizio.

 

Certo, si fa presto a dire Brooklyn, e la nonna che si fa il risvolto ai jeans stile boyfriend e cucina marmellate al retrogusto di caramello salato è una barzelletta nazionale, non un’operazione di marketing. Brooklyn Heights è un buon compromesso. Ha la puzza sotto il naso quanto e anche più di Manhattan, è il riflesso urbanistico del mondo che i Clinton rappresentano da venticinque anni a questa parte, è un luogo dell’anima non troppo distante dai banchieri di Wall Street con cui la candidata da sempre s’accompagna, ma allo stesso tempo c’è la grande semplificazione che aleggia attorno al nome di Brooklyn, bourough-città che a livello globale è percepita come una cucina creativa, una cosa a metà fra la Berkeley della summer of love e la Fiume di D’Annunzio sotto la Carta del Carnaro, ma senza troppe pretese controculturali o impeti avanguardisti.
Perché esistono principalmente due Brooklyn, magari tre, ma quella che rimane impressa nell’icona globale è soltanto una, Brooklyn-cool. Semplicemente cool, cioè fresca, nel senso di “alla moda” ma né gelida né bollente, tutto sommato tiepida, prona al compromesso e all’ambiguità. Non esiste posto più adatto per dare una nuova vita alla vecchia Hillary.

 

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