Militari iracheni festeggiano la riconquista di Tikrit (foto LaPresse)

Dentro a Tikrit, gli sciiti arrivano sui luoghi delle stragi

Daniele Raineri
Baghdad deve controllare due narrative opposte: una per gli sciiti e una per l’occidente. Intanto i paramilitari sciiti hanno appena vinto la prima battaglia contro lo Stato islamico, che è rimasto asserragliato fra questi palazzi fino alla sera di mercoledì, dopo che la vittoria era già stata annunciata su canali ufficiali dal primo ministro iracheno.

Tikrit, dal nostro inviato. Con l’aria dei nuovi padroni, i gruppi paramilitari sciiti entrano dentro il complesso presidenziale che fu di Saddam Hussein sulla sponda ovest del fiume Tigri. Hanno appena vinto la prima battaglia contro lo Stato islamico, che è rimasto asserragliato fra questi palazzi fino alla sera di mercoledì, dopo che la vittoria era già stata annunciata su canali ufficiali dal primo ministro iracheno. Le jeep corrono sui viali senza fine che collegano i laghi artificiali e fra gli edifici che un tempo proiettarono sugli ospiti la grandeur neobabilonese del rais; alcuni palazzi sono ancora in piedi senza un graffio, altri sono schiacciati dalle bombe guidate a distanza degli americani, che sono arrivate anche in questo caso a risolvere la situazione oltre l’ultimo minuto. Era già successo due settimane fa quando esercito e milizie si erano fermati e avevano ammesso, fra molti imbarazzi, la loro incapacità di sbloccare l’assedio alla città. Nel 2003, anno dell’invasione americana, i jet non avevano inflitto sul resort imperiale di Tikrit i danni che hanno fatto in questi giorni di primavera nel 2015.

 

I cadaveri anneriti dei combattenti dello Stato islamico sono sparsi fra le aiuole, ma nessuno parla dei bombardamenti, anzi, una notizia che va forte tra i soldati è che capaci aerei da trasporto americani stanno rifornendo di armi e munizioni lo Stato islamico nella provincia di Anbar – soltanto questo spiega la lentezza dei progressi dello sforzo collettivo nazionale contro i mutatarrifin, gli estremisti. Quando si prova a chiedere come è possibile che gli americani stiano rifornendo lo Stato islamico e al contempo bombardino qui, questi stessi metri quadrati dove le loro bombe guidate hanno ridotto in briciole le postazioni dello Stato islamico, la risposta è portata via dal vento. E’ tempo per un altro segno con le dita a V, per un’altra carola tutti assieme con i kalashnikov puntati verso il cielo. Gli iracheni sparano in aria, e questo non aiuta a distinguere i colpi dei cecchini ancora in circolazione, perché un conto è la vittoria annunciata e un altro quella effettiva.

 

Il momento più sentito è quando i gruppi scendono al fiume, verso un palazzo di Saddam che affaccia con banchine eleganti sul Tigri. A giugno scorso lo Stato islamico ha catturato quasi duemila reclute del vicino Cob Speicher – una base americana diventata accademia dell’aviazione irachena –, le ha portate in mezzo ai palazzi di Saddam, ha lasciato andare quelle di fede sunnita e ha ucciso uno per uno le centinaia di fede sciita. Lo Stato islamico ha anche prodotto e messo su internet un video con alcune sequenze girate su quei “killing fields”, si chiama “Secondo la metodologia dei profeti”, e una scena mostra una fila di prigionieri portata proprio su quella banchina e sterminata con un colpo di pistola alla testa da un uomo in passamontagna, i corpi che cadono dritti nel Tigri. “Guarda, guarda”, gli uomini mostrano una macchia nera che supera l’orlo della banchina e scende verso il pelo dell’acqua. “Sai cos’è?”. E’ il sangue che si vede nel video, dieci mesi dopo. Dopo la rivelazione, segue una serie infinita di canti religiosi, di selfie, di parate sul posto. Il massacro di Cob Speicher è un’onta nella coscienza nazionale, perché i cadetti furono lasciati senza istruzioni davanti all’avanzata dello Stato islamico. Con la riconquista di Tikrit, comincia il processo di guarigione.

 

Un uomo s’avvicina, “sai dove abito?”. Indica le case sull’altra sponda del fiume. Così hai visto tutto quello che è successo qui? Annuisce. E’ Hosein al Jubouri, capo di un clan locale sunnita e di una milizia sunnita che combatte contro lo Stato islamico. Ha quattro figli in mimetica con lui e l’aria rassegnata. Gli sciiti attorno lo trattano con riverenza, lo additano, è un sunnita che combatte con loro, in pratica è una sfida alle correnti gravitazionali che trascinano l’Iraq verso il basso. Non sfugge loro anche il valore per la propaganda. Si avvicina un ufficiale sciita, mentre al Jubouri racconta al Foglio: “Il primo giorno della battaglia quando lo Stato islamico ha cominciato a ritirarsi è stato lungo, ma il secondo no: hanno preso a scappare per i campi, li abbiamo inseguiti, ne abbiamo presi undici e li abbiamo uccisi tutti”. L’ufficiale interviene minimizzando, “no, non dice che li ha uccisi”. Jubouri ripete: “Li abbiamo uccisi tutti”. Fa il gesto con le due mani a mimare il mitra. Jubouri sa di essere segnato. I gruppi paramilitari smobiliteranno prima o poi, torneranno da dove sono venuti, alcuni anche a sud di Baghdad, da Karbala. Lui e i suoi resteranno qui, non si aspettano pietà dallo Stato islamico e non ne concedono. Sa cosa è successo ai clan sunniti che si sono ribellati allo Stato islamico e hanno fallito.

 

[**Video_box_2**]Dentro Tikrit non si vede un solo civile. In una casa c’è il cadavere di un combattente dello Stato islamico, sembra fosse legato e che poi lo abbiano sciolto, è stato trascinato, gli manca metà della faccia. Dicono al Foglio che ha un passaporto “scritto in russo”, ma non lo mostrano. Ci sono saccheggi e incendi dei gruppi sciiti contro i sunniti locali, la tanto temuta rappresaglia contro una popolazione che è considerata ostile al governo di Baghdad, resa ancora più grave dall’aiuto americano? La città ha addosso i segni di un mese di guerra urbana, bombardamenti, centinaia di trappole esplosive e alcune sono ancora da disinnescare – due militari sono morti quando hanno provato a togliere dalla cima di un palazzo la bandiera dello Stato islamico, uno scalino era stato minato. Ci sono fuochi dentro due negozi che non sono spiegabili con le bombe, e alcune assi divelte – erano state messe a protezione dei vetri – e attorno non ci sono segni di proiettili. Un paio di sciiti accostano la macchina e tirano sassi contro i vetri della villa di un sunnita. Questo è quello che si vede. Ma a Baghdad il governo è attento all’immagine internazionale, nello sforzo impossibile di tenere sotto controllo due narrative opposte: da una parte vuole scatenare l’orgoglio sciita per mobilitare le masse, quindi è tutto video patriottici sulle tv e bandiere che garriscono al vento per centinaia di chilometri sulle autostrade, e dall’altra vuole rassicurare gli alleati esterni (che mandano armi e aerei) e quindi deve temperare le pulsioni di vendetta dei gruppi paramilitari.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)