Una manifestazione contro gli attentatori del Museo Bardo di Tunisi (foto LaPresse)

Quanto è bella la piazza tunisina che ci ricorda per cosa combattiamo

Paola Peduzzi
Da Parigi a Tunisi, con i buchi nei muri che restano. Nel giro di tre mesi, lo jihadismo ha colpito il cuore dell’Europa e l’unica democrazia araba che non ha sprecato la sua primavera.

Milano. Al museo del Bardo, a Tunisi, i buchi nei muri lasciati dai proiettili sparati a raffica dai terroristi islamici il 18 marzo scorso resteranno, non saranno stuccati, “la bellezza antica e il lutto recente si combinano in un modo struggente”, scrive Adriano Sofri su Repubblica, sintesi perfetta di quel che è oggi il museo attaccato, e la Tunisia intera. Domenica c’è stata la manifestazione contro il terrorismo, “Je suis Bardo”, la piazza piena, 70 mila persone, il coro “Tous unis, Tunisie”, i leader stranieri solidali, i capi di Ennahda, il partito islamico che pareva destinato a inghiottire il paese nell’oscurantismo e che invece ha persino rinunciato al potere quando era necessario, tantissimi bambini sulle spalle dei papà e dei nonni, le bandiere rosse e bianche, gli slogan diversi ma tutti destinati a portare lo stesso messaggio: noi siamo qui, uniti, non ci piegherete. La mente corre a Parigi, all’11 gennaio, i cappotti erano spessi e il verde attorno non era così brillante, ma l’obiettivo era lo stesso: l’unità di un popolo contro il terrorismo, ma soprattutto l’unità a favore di una visione del mondo in cui si vuole crescere economicamente, attirare persone e investimenti, muoversi, progettare. Vivere liberi, insomma.

 

Nel giro di tre mesi, lo jihadismo ha colpito il cuore dell’Europa e l’unica democrazia araba che non ha sprecato la sua primavera, ma che ha cercato di camminare oltre quel trauma per renderlo fertile. Non è successo altrove, dove le primavere sono terminate in un sussulto conservatore, i dittatori sono stati sostituiti da altri dittatori, nel migliore dei casi, o dal caos islamista fuori controllo, e i desideri dei cittadini sono stati invariabilmente spianati. E’ successo in Tunisia, che è un paese piccolo e considerato irrilevante negli equilibri della regione, ma è successo, e il punto è proprio questo oggi: perché se i terroristi colpiscono la Tunisia vuol dire che allora l’esperimento democratico sarà anche traballante, sarà anche relativamente piccolo, ma non è certo irrilevante.

 

Il ministro tunisino dello Sviluppo, Yassine Brahim, ha scritto sul Wall Street Journal prima della manifestazione che non è un caso il fatto che “i terroristi abbiano cercato di toglierci il tappeto da sotto i piedi proprio ora che stiamo iniziando a procedere a testa alta”. Brahim deve rassicurare il mondo esterno, la ripartenza della Tunisia è ben più zoppicante se i turisti la disertano – e questo i terroristi che hanno ucciso 22 turisti lo sapevano bene – ma quel che vuole dire vale per tutti: “Quando delle minoranze violente cercano di svilire maggioranze pacifiche, la risposta migliore è non cambiare il percorso che si stava facendo”. Non arretrare, non perdersi in domande complicate – Perché lo fanno? Perché ci vogliono male? Che cosa abbiamo fatto? –, non tormentarsi sulle nostre colpe, come se fosse il nostro modello sociale e culturale a generare il terrorismo, ma continuare a essere quel che si è, una democrazia che usa l’unità nazionale come scudo contro la violenza e la destabilizzazione. Anche la manifestazione “Je suis Charlie” era nata per questo, era stata bellissima e inusuale (forse gli americani non si perdoneranno mai di non aver partecipato, impegnati com’erano nei loro calcoli cinici), ma si sa che l’occidente stanco delle guerre permanenti preferirebbe ritirarsi in un cantuccio, piuttosto che continuare a battersi per quello che lo ha reso pacifico e prospero. La giovinezza della democrazia tunisina la tiene al riparo dalla nostra stanchezza – il paese ha fatto la sua scelta e la paga, perché le fratture interne ci sono eccome e perché la strada per la stabilità è ostacolata, dalla povertà prima di tutto – ed è per questo che la manifestazione di domenica risplende per la sua forza struggente. E’ la prima cosa bella che accade in una regione tormentata, l’antidoto alla sciagurata scelta che ci tocca fare tra jihadismo sunnita e jihadismo sciita, l’alleanza con uno di qui e con l’altro di là: ci dicono che la flessibilità è la nostra salvezza, adattarsi ai cambiamenti, valutare le opzioni migliori, pare piuttosto che dovremo turarci il naso per sempre.

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi