Il presidente iraniano Hassan Rohani e il ministro degli Esteri Javad Zarif

Le stelle allineate d'Iran

Tatiana Boutourline
A Teheran i più sfoggiano ragionevolezza sull’accordo nucleare e sotto cova il gigante dormiente del nazionalismo, che si è incarnato in nuove (e inaspettate) icone pop.

"Tutte le stelle si sono allineate”, dice dice il giornalista che segue la delegazione iraniana, parlando alla radio pubblica della Repubblica islamica, quando nella lobby dell’Hôtel Beau-Rivage Palace di Losanna arriva il segretario di stato americano, John Kerry. E’ una settimana decisiva per il negoziato sul dossier nucleare di Teheran: il 31 marzo è stato indicato come ultima data utile entro cui definire le coordinate politiche di un accordo-quadro (che, una volta raggiunto, potrà essere limato nei suoi dettagli tecnici fino alla fine di giugno), ma questa è anche, e soprattutto, la settimana in cui la legacy obamiana si intreccia tanto al destino politico del presidente iraniano Hassan Rohani quanto a quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Mentre Israele vota, a Teheran c’è chi scommette sulla sua sconfitta come viatico alla distensione, ma anche chi tifa Bibi per non perdersi lo spettacolo della tempesta perfetta tra Washington e Gerusalemme.

 

L’orologio del possibile reset diplomatico ticchetta e il team iraniano ostenta calma. Negli scatti che immortalano la delegazione in volo verso la Svizzera, il ministro degli Esteri Javad Zarif sorride guardando una rivista che lo ritrae sulla copertina. Un sondaggio – per quello che valgono i sondaggi in Iran – lo ha recentemente consacrato “uno degli uomini più amati della Repubblica islamica”, secondo solo alla nuova icona rivoluzionar-pop, Qassem Suleimani. A Teheran sono comparsi enormi cartelloni che celebrano l’amministrazione del presidente Hassan Rohani e “le sue relazioni con il mondo”. La Borsa è salita del 2 per cento in cinque giorni e la febbrile attesa del Nowruz, il capodanno persiano, è carica di un’urgenza nuova. “Dal grigiore, all’alba, fino alla luce del giorno”, ha detto il presidente iraniano alludendo “all’accordo che prima o poi si farà”.

 

La strada verso lo storico accordo è lastricata di distinguo e le voci che filtrano dal negoziato parlano sì di progressi, ma anche di nodi da sciogliere, eppure, mai come questa volta, il mantra degli iraniani pare essere l’ottimismo. Teheran vuole essere annoverata come l’interprete più ragionevole in una partitura in cui gli altri, gli occidentali e in particolare gli americani, si dimostrano volubili e superficiali. “Se l’accordo muore a Teheran, come politico puoi lo stesso farci qualcosa, ma se lo uccidono a Washington è davvero un gran problema”, ha spiegato a Foreign Policy Richard Nephew, in forza al dipartimento di stato fino allo scorso dicembre come esperto di sanzioni. “Vi abbiamo seguito fino a qui, direbbero gli alleati e voi ve ne siete andati”, a quel punto “convincere partner commerciali dell’Iran come India, Cina e Russia a rispettare le restrizioni nei confronti delle esportazioni energetiche di Teheran diventerebbe assai più complicato”.

 

Così mentre il team iraniano chiede spiegazioni riguardo alla lettera in cui 47 senatori repubblicani avvertono l’ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema, che un eventuale accordo nucleare siglato con Barack Obama avrebbe vita breve, da Teheran arrivano le rassicurazioni del capo del Majlis, Ali Larijani: “Il Leader Supremo ha approvato il negoziato e non c’è bisogno che il Parlamento faccia altrettanto”, come a dire che l’Iran non offrirà lo spettacolo fazioso dei suoi interlocutori. 

 

Lo sfoggio di ragionevolezza dei dirigenti iraniani non è solo tattico però. Dopo 18 mesi di colloqui, passeggiate e pacche sulle spalle, contatti che un tempo avrebbero fatto strabuzzare gli occhi a qualsiasi analista e che, adesso, sono solo routine, la normalizzazione de facto c’è già e agli iraniani importa poco che David Petraeus li accusi di essere più pericolosi dello Stato islamico in Iraq o che il principe saudita Turki al Faisal paventi – in caso di accordo – una corsa agli armamenti atomici in medio oriente.

 

Mentre Kerry sostiene che non si va da nessuna parte senza parlare con Bashar el Assad e l’estremismo sunnita scalza l’Iran e Hezbollah dal vertice delle minacce più pericolose per l’intelligence americana, molte stelle paiono davvero essersi allineate nel cielo di Teheran.  

 

“E’ un momento d’oro per noi”, ha raccontato in un’intervista ad al Monitor Amir Mohebbian, uno dei giornalisti più ascoltati negli ambienti conservatori. Il reset non sarà né immediato né omnicomprensivo. L’Iran non passerà nel giro di una notte da paria a “poliziotto del golfo” come temono l’Arabia Saudita e i suoi satelliti, ma l’impatto sarà comunque “enorme”. E, infatti, a preoccupare Ankara e Riad non è tanto l’ipotesi di una distensione totale, una riedizione, mutatis mutandis, dei rapporti pre-rivoluzionari, quanto la possibilità di un’intesa più sfumata, fatta di aree che restano volutamente grigie. Gli analisti sauditi la chiamano “politica minima”: campo libero a Teheran senza alcun potere di supervisione nei confronti dei pasdaran e delle loro milizie, come sta già accadendo in Iraq.

 

Secondo Mohebbian, se Zarif porterà a casa l’accordo, “il sistema lo accetterà”. E’ persuaso che l’emergere del jihadismo sunnita ultima maniera abbia aiutato un blocco decisivo del regime a riconoscere che l’ideologia khomeinista vecchia maniera, anti imperialista e rivoluzionaria, vada aggiornata. “E’ un tabù, non si può dire ad alta voce, ma l’Iran ambisce a un ruolo di leadership nel mondo musulmano ed è più facile che realizzi il suo obiettivo incarnando una versione moderata dell’islam. Non dico che saremo la Svizzera, però cambieremo”.

 

“Cambiare per sopravvivere” è stata per vent’anni la missione di una generazione di ideologi riformisti bruciati tanto dall’ignavia di Mohammed Khatami quanto dalla sottovalutazione del “partito dei pasdaran” di Mahmoud Ahmadinejad. La differenza è che questo “cambiare per non morire” riveduto e corretto ha poco a che vedere con l’allentamento dei diktat della moralità rivoluzionaria. I conservatori alla Mohebbian hanno imparato la lezione delle sanzioni, sognano per l’Iran un futuro da potenza economica, una riedizione del modello cinese perorato da Hashemi Rafsanjani, ma sanno anche che, per contrastare gli effetti dirompenti di una massiccia iniezione di consumi occidentali, la religione e l’ideologia rivoluzionaria non bastano più: è il nazionalismo, messo all’indice nel 1979 insieme a tutte le altre vestigia monarchiche, il nuovo uovo di Colombo.

 

[**Video_box_2**]Non c’è esempio più lampante di questo percorso del nuovo profilo pubblico del capo di al Quds, Qassem Suleimani, passato in una manciata di mesi da Suleimani a Supermani: il misterioso e impenetrabile comandante pasdaran trasformato in un’ irrinunciabile icona pop. Dopo una vita trascorsa a tessere tele nell’ombra, tutto a un tratto non c’è giorno in cui non conceda un poco di sé: Suleimani che beve il té con i peshmerga, Suleimani che festeggia il compleanno a Tikrit, Suleimani che poggia la mano paterna sulla spalla di un miliziano, Suleimani che prima veniva immortalato con gli occhi umidi per la morte di un commilitone a ricordare a tutti che, anche nella vittoria, “non si deve gioire ma pensare ai martiri che ci hanno preceduto” e che ora, invece, sorride. Un anchorman della tv iraniana è andato in onda con il suo volto stampato sulla maglietta, in Iraq gli hanno dedicato una canzone e il segretario generale di Badr (milizia sciita che Teheran ha sostenuto in funzione anti Saddam) ha proposto di innalzare sul suolo iracheno una statua in suo onore. Il deputato del Kurdistan iraniano, Nazem Dabbagh, ha motivato in questi termini il segreto del suo successo: “Suleimani non resta confinato negli alberghi di lusso a dare ordini, ma è sempre sul campo di battaglia e non indossa nemmeno un giubbotto antiproiettile”. In tempi in cui tutto appare incerto – tanto le promesse di rinnovamento di Rohani quanto l’assistenzialismo del regime verso i suoi – Suleimani pare l’unico modello davvero vincente. Quando abbraccia Jihad Mughniyeh, il figlio del leggendario (o famigerato a seconda dei punti di vista) comandante di Hezbollah Imad Mughniyeh, rassicura quanti nel regime temono una deriva nel campo filo occidentale. Suleimani guancia a guancia con Mughniyeh conferma di vantare rapporti viscerali con i più importanti alleati iraniani nella regione. E allo stesso tempo, il suo status rappresenta anche un’arma formidabile nell’arsenale diplomatico dei pragmatici.

Di più su questi argomenti: