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L'analisi

La prudenza c'è, manca la crescita: il bilancio di Giorgetti

Luciano Capone

Deficit sotto il 3%, promozione delle agenzie di rating, spread in calo. Il ministro ha ottenuto buoni risultati, ma sulla manovra è finito sotto il fuoco amico. Con il pil fermo non ci sono risorse da distribuire e aumetano le tensioni nella maggioranza

Il 2025 è stato l’anno in cui il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha ottenuto i maggiori riconoscimenti e risultati. E’ iniziato, a gennaio, con la nomina di “ministro delle Finanze dell’anno” da parte di The Banker, il mensile finanziario del Financial Times, per i suoi sforzi nel ridurre il crescente deficit di bilancio e sostenere gli investimenti pubblici. Ma dopo i premi personali, nei mesi successivi sono stati superati importanti traguardi concreti. Quello più importante è stato, certamente, la riduzione del deficit sotto il 3 per cento, che consente l’uscita dalla procedura d’infrazione europea con un anno d’anticipo (la stima, lo scorso anno, era di un disavanzo del 3,3 per cento nel 2025). Anche per questa ragione le agenzie di rating hanno migliorato il giudizio sull’Italia, inclusa Moody’s, quella storicamente più severa con il nostro paese, che ha alzato il rating sovrano per la prima volta dopo 23 anni. Eppure l’anno si è chiuso con la discussione di una legge di Bilancio in cui Giorgetti è stato criticato e delegittimato dal suo stesso partito. 

Il governo Meloni si è insediato nel 2022 con un deficit di bilancio dell’8,1 per cento, il più elevato dell’Unione, oltre il doppio della media dell’eurozona (3,4 per cento). Per riequilibrare i conti Giorgetti ha dovuto prendere decisioni non semplici, soprattutto rispetto alle storiche promesse e battaglie dei partiti di destra: ritirare i sussidi introdotti contro la crisi energetica (a partire dagli sconti sulle accise), disattivare la bomba nel bilancio del Superbonus, ridurre i canali d’uscita anticipata per le pensioni, tagliato il Reddito di cittadinanza. L’aggiustamento fiscale, che in tre anni ha portato il disavanzo dall’8,1 al 3 per cento, è stato peraltro attuato in un contesto difficile internazionale difficile: guerre, inflazione, aumento dei tassi d’interesse, dazi, debito pubblico crescente per via dell’eredità dei bonus edilizi.

La politica di bilancio ispirata alla “prudenza”, parola sempre ripetuta da Giorgetti, ha ispirato fiducia negli investitori. Lo spread, che a inizio legislatura, era a 240 punti ora è a circa 65 punti, il livello più basso dal 2009. E’ certamente vero che la riduzione del differenziale con il Bund è dovuto, in maggior parte, all’aumento del rendimento dei titoli tedeschi e in minima parte a una riduzione dei tassi italiani. Ma, come ha segnalato recentemente l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), nel 2025 il costo medio del nuovo debito ha proseguito la sua discesa: dal picco del 3,8 per cento nel 2023 è sceso al 3,4 per cento nel 2024 e al 2,8 per cento quest’anno. Così i rendimenti delle nuove emissioni sono scesi al di sotto dell’onere medio del debito pubblico (circa 3 per cento), invertendo la dinamica dell’ultimo triennio in cui il nuovo debito costava di più. Per un paese con un debito altissimo (oltre 3 mila miliardi) e una spesa per interessi di circa 90 miliardi annui, vuol dire mettere in sicurezza l’economia e risparmiare risorse per rifinanziare il debito.

Con questi risultati, anche considerando le difficoltà di altri grandi paesi europei come Francia e Spagna che non riescono ad approvare un budget, avremmo dovuto vedere un ministro dell’Economia più forte che mai all’appuntamento con la legge di Bilancio. E invece Giorgetti è stato costretto a rimangiarsi pezzi della sua manovra, dopo la ribellione della sua maggioranza e in particolare della Lega, il partito di cui è vicesegretario. Com’è stato possibile?

Al di là delle questioni personali e degli aspetti contingenti, il problema sostanziale è che non c’è crescita. L’economia italiana si è fermata e, di conseguenza, non ci sono risorse da distribuire. Negli anni passati un po’ la crescita e un po’ l’inflazione, che gonfiava le entrate, consentivano al governo – pur in un contesto di aggiustamento fiscale – di adottare misure che i partiti potevano rivendicare come il taglio del cuneo fiscale. Ora è tutto fermo: la crescita reale è la più bassa d’Europa e si avvicina allo zero, l’inflazione scende e non permette di redistribuire entrate da fiscal drag e l’occupazione rallenta. Così l’austerità si fa sentire e fa aumentare le tensioni nella maggioranza, che si scaricano su Giorgetti che ha il compito di far rispettare i saldi di bilancio. “Essere il ministro delle Finanze italiano è un compito ingrato” scriveva The Banker, consegnandogli il premio.

Ma l’assenza, anche in questa manovra, di una politica per la crescita è in realtà un problema che riguarda anche tutti gli altri ministri. Perché, a parte la buona politica di bilancio riconosciuta da tutti, in tre anni di governo Meloni non c’è traccia di una strategia né di singole riforme per aumentare la competitività e arrestare il declino della produzione industriale e il tracollo della produttività. Il messaggio di questa legge di Bilancio a Giorgia Meloni è che la prudenza sui conti è necessaria, ma senza crescita non basta. Proprio perché non ci sono soldi, serve coraggio sul lato riforme. Sotto il fuoco amico c’è finito Giorgetti, ma la responsabilità è di tutto il governo.

 

 

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali