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Il colloquio

La "loi spéciale" è un respiratore per Parigi, non la soluzione. Parla Levy

Davide Mattone

L'economista della Berkeley University chiarisce i rischi del bilancio provvisorio: "Rallenta l’aggiustamento finanziario e aumenta i rischi di sforamento degli obiettivi di finanza pubblica. Per il principio di non retroattività, molte misure fiscali pensate per i redditi 2025 rischiano di non essere ammissibili per la Corte costituzionale"

“La ‘legge speciale’ significa approvare il bilancio solo a fine gennaio o inizio febbraio: e, per il principio di non retroattività, molte misure fiscali pensate per i redditi 2025 (con le tasse che saranno pagate nel 2026) rischiano di non essere ammissibili”. Antoine Levy, economista della Haas School of Business a Berkeley, sintetizza così al Foglio la crisi della legge di Bilancio francese. “Questo rallenta l’aggiustamento finanziario e aumenta i rischi di sforamento degli obiettivi di finanza pubblica”, commenta l’economista francese.

Il tema è la scelta di lunedì 22 dicembre del governo di Sébastien Lecornu, votata poi all'unanimità nella serata di martedì, con la quale la Francia ha imboccato la corsia d’emergenza per evitare un vuoto finanziario dal primo gennaio. Una loi spéciale di quattro articoli e, in parallelo, un decreto di services votés per autorizzare lo stato a incassare le imposte e a spendere un dodicesimo della spesa annuale dell’anno precedente per ottemperare alle spese essenziali. Il tutto in attesa di una manovra per il 2026 arenata dopo il fallimento di venerdì 19 dicembre del comitato di conciliazione tra Assemblea nazionale e Senato. In parole semplici Lecornu ha optato verso un Bilancio provvisorio per tenere accese le luci mentre si cerca di arrivare a un compromesso. Nessuna nuova misura e niente nuovi investimenti. Con l’aumento di 6,7 miliardi previsto per la difesa che resta congelato finché il Bilancio non torna in Aula. Una misura simile, nel dicembre del 2024, costò circa 12 miliardi in un solo mese di gestione provvisoria. Intanto il deficit francese, al 5,4 per cento del pil, è il più alto dell’eurozona e il rendimento dei titoli di stato (Oat) a dieci anni si aggira intorno al 3,6 per cento. In questi giorni lo spread francese viaggia attorno ai 72 punti base, sopra quello italiano (circa 67). Un segnale non banale, perché indica che il mercato sta chiedendo più “premio di rischio” per finanziare Parigi che Roma.

 

Levy però insiste che non è solo una crisi dell’attuale maggioranza: “La Francia fatica da decenni a impegnarsi su politiche fiscali di lungo periodo, sia sul fronte della spesa che su quello delle entrate. Le previsioni vengono riviste al ribasso e i deficit superano quasi ogni anno sia i numeri annunciati sia gli impegni europei. Ed è  probabile che ciò continui anche dopo le presidenziali del 2027” commenta l’esperto. “Il processo in due tempi - prima il voto sul Bilancio della sicurezza sociale, che è passato; poi quello sul Bilancio dello stato, che è fallito – rivela che la spesa sociale è vicina a due terzi del totale eppure resta per lo più fuori dal controllo del dibattito parlamentare centrale”, sottolinea Levy, “Abbiamo fatto delle scelte estremamente costose sul lato della spesa nel Bilancio sociale e abbiamo spostato le tasse necessarie nel Bilancio dello stato”. Poi l’economista sottolinea il grande rischio che il rinvio della manovra potrebbe portare con sè: “Se il Bilancio non passa entro il 31 dicembre, molte delle imposte previste - dall’estensione della sovraimposta sulle imprese alla tassa speciale sui più ricchi (ndr, la tassa Zucman) e al ritorno dell’imposta patrimoniale - non saranno disponibili come coperture nel 2026, perché verrebbero considerate retroattive dal Corte costituzionale”, commenta Levy.

Nel frattempo il mondo dominato dal “diritto del più forte” non aspetta l’Assemblea nazionale. Lunedì 22, da Mar a Lago, il presidente Donald Trump ha rivendicato di aver minacciato Macron sul prezzo dei farmaci: o Parigi accetta di aumentare i prezzi, o scatta un dazio del 25 per cento su “tutto ciò che la Francia vende negli Stati Uniti”. E questo nonostante sia l’accordo con l’Unione europea (aliquota per la maggior parte dei beni al 15 per cento) e lo sforzo dei negoziatori della Commissione per lavorare sui dazi sull’acciaio. La leva dei dazi a dicembre è ancora una una minaccia più che viva. Proprio quando Parigi (con la strizzata d’occhio del governo Meloni) ha spinto per frenare altri dossier commerciali europei come quello con il Mercosur. Con il rischio, più che mai vivo, che i paesi dell’Ue rimangano schiacciati tra i dazi americani, la concorrenza dell’export cinese e una manifattura domestica non galoppante

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