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Una lettera al Mef
Così i grandi investitori istituzionali processano il governo sulla finanza
L'International Corporate Governance Network, che racchiude i più grandi fondi di investimento al mondo, scrive al governo che la proposta di riforma del Tuf minerebbe la fiducia nel mercato italiano. Il governo promette di sviluppare il mercato dei capitali, ma un paese che non cresce non può permettersi altre norme ostili al settore finanziario
L’obiettivo del governo Meloni, in teoria, è quello di sviluppare il mercato dei capitali in Italia. Ma il risultato di riforme e legge di Bilancio, in pratica, rischia di essere l’opposto. Il governo e il Parlamento sono impegnati nel promuovere l’attrattività del sistema Italia attraverso la riforma, dopo trent’anni, del Testo unico della finanza (Tuf), noto come “legge Draghi” (dal nome dell’allora dg del Tesoro che presiedeva la commissione tecnica). Pochi giorni fa, il presidente della commissione Finanze della Camera, Marco Osnato (FdI), e il sottosegretario al Mef, Federico Freni (Lega), hanno ricevuto una lettera che chiede di “riconsiderare” alcuni elementi importanti della bozza del decreto di riforma del Tuf da parte dell’International Corporate Governance Network (Icgn).
L’Icgn, questa sigla oscura e ignota per i più, rappresenta i più grandi investitori istituzionali globali di oltre 40 paesi – da Blackrock ad Amundi, da J.P. Morgan al Fondo sovrano norvegese, da Vanguard a Nomura – con un patrimonio gestito di oltre 90 mila miliardi di dollari (circa 30 volte il debito pubblico italiano). Insomma, è gente il cui parere andrebbe quantomeno ascoltato se si vogliono attrarre capitali dall’estero per far sviluppare la Borsa e le imprese italiane, non fosse altro perché nel network sono inclusi investitori e asset manager che già operano in Italia. “Sebbene la riforma contenga diverse proposte valide, gli investitori sono preoccupati da diversi elementi chiave che rischiano di indebolire le tutele degli azionisti di minoranza e potrebbero minare la fiducia nel mercato italiano tra gli investitori istituzionali di lungo periodo”, è il messaggio della lettera che include le misure specifiche da rivedere.
L’aspetto paradossale è che, proprio mentre sta proponendo una riforma del settore che già suscita preoccupazioni e scetticismo tra i più grandi investitori mondiali, il governo presenta una legge di Bilancio punitiva per il settore finanziario, visto più come una vacca da mungere che come una leva per lo sviluppo economico. Nella versione originaria, la manovra del governo Meloni chiedeva a banche e assicurazioni di versare oltre 11 miliardi di euro in più nel triennio. Ma il conto è andato man mano aumentando. La novità principale è l’aumento dell’Irap su banche e assicurazioni di 2 punti (a un certo punto era stato proposto l’aumento di 2,5 punti), che porta nelle casse del Tesoro 2 miliardi di gettito annuo in più. Il centrodestra, fondato da Silvio Berlusconi che chiamava l’Irap “Imposta Rapina” promettendone l’abolizione, ha invece proseguito sulla linea del governo di Mario Monti che, durante la crisi del debito sovrano del 2011, aumentò l’aliquota ordinaria del 3,9 per cento su banche e assicurazioni portandola rispettivamente al 4,65 e al 5,90 per cento: con Giorgia Meloni l’aliquota al 6,65 e al 7,9 per cento. L’Irap aumenta di 2 punti, nonostante il programma del centrodestra alle elezioni del 2022 ne promettesse l’abolizione.
Stessa storia per la Tobin tax, l’imposta sulle transazioni finanziarie. I partiti di centrodestra hanno chiesto il voto promettendone l’abolizione, e invece la raddoppiano per recuperare un gettito di circa 400 milioni annui, questo presumendo che il comportamento degli operatori finanziari resti identico. E’ un’imposta che rischia di azzoppare ulteriormente Borsa Italiana, riducendone la liquidità e spingendo le imprese a passare su altri listini. Una norma per respingere, anziché attirare i capitali. La Tobin tax era diventata agli inizi del secolo l’imposta simbolo del movimento No global, usata come vessillo contro il capitalismo finanziario dal caudillo Hugo Chávez, venne introdotta sempre dal governo Monti con le proteste dei partiti di destra che, ora che sono al governo, la moltiplicano per due.
In questa legge di Bilancio il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha anche aumentato la tassazione sui dividendi da partecipazioni, eliminando la cosiddetta Dividend exemption – un meccanismo per evitare fenomeni di doppia tassazione – per le partecipazioni sotto il 5 per cento. Alle misure di questa manovra, si può aggiungere l’eliminazione due anni fa dell’Ace, un incentivo introdotto dal governo Monti per patrimonializzare le imprese, quindi per favorire l’equity e il capitale di rischio al posto del debito.
Oltre agli interventi fiscali, questo governo si è contraddistinto anche per un forte interventismo nel mercato ad esempio con l’uso del Golden power su operazioni di consolidamento bancario tutte italiane come Unicredit-Bpm, peraltro autorizzate a livello europeo: non a caso quelle prescrizioni – in parte già bocciate dalla giustizia amministrativa – sono ora oggetto di una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea.
L’immagine che ne viene fuori è di un governo che vede il settore finanziario da un lato come un limone da spremere per coprire le esigenze e le emergenze di Bilancio, dall’altro che vuole mantenere un controllo politico sul settore facendo e disfacendo aggregazioni: più tasse e meno mercato, più ricerca del controllo che dello sviluppo del settore. Non il modo migliore per attrarre i soldi degli investitori internazionali, soprattutto considerando che l’Italia è un paese con un mercato dei capitali ridotto e un’economia che non cresce.