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Mancanza di coraggio

Dal Mercosur agli asset russi. La politica dei rinvii che può sabotare l'Ue

Luciano Capone

Le esitazioni su Mercosur e asset russi sono il riflesso di un’Ue che rinuncia alla sua Grandeur. Ma reagire si può

Hai voglia a dire, come ha fatto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che questo è “il momento dell’indipendenza dell’Europa”. Che è il momento per gli europei di diventare adulti, di assumersi le proprie responsabilità in un mondo diventato più cattivo, di farsi carico della propria sicurezza ora che gli Stati Uniti non vogliono più farlo e che la Russia è sempre più aggressiva. Hai voglia a dire che, in un mondo in cui prevale la politica di potenza di Trump, Putin e Xi Jinping, l’Unione può puntare sull’apertura e il multilateralismo. Proprio ora, che il momento è decisivo, l’Europa si mostra esattamente come la descrivono i suoi critici: caotica, burocratica e inconcludente. Nel Consiglio di oggi e domani a Bruxelles sono all’ordine del giorno due delle decisioni più importanti degli ultimi anni: l’uso degli asset russi congelati e il sì all’accordo commerciale con il Mercosur. 

Mentre Vladimir Putin minaccia di proseguire la sua guerra sull’Ucraina e definisce i leader europei “maiali che volevano banchettare con il crollo della Russia”, i paesi dell’Unione non riescono a mettersi d’accordo sul se e sul come usare gli asset congelati della Russia per finanziare il sostengo dell’Ucraina e la sua ricostruzione. Euroclear, l’istituzione finanziaria che detiene 180 miliardi di capitali russi, e il Belgio che la ospita sono preoccupati delle possibili conseguenze in termini di reputazione, di contenzioso legale e di ritorsioni da parte di Mosca. L’Italia insieme ad altri paesi sostiene la linea del Belgio perché, come ha detto ieri la premier Giorgia Meloni, ha le stesse preoccupazioni e non vuole che il costo finisca per pesare sui bilanci nazionali. Sono tutte inquietudini legittime, ma se non si vuole che paghi la Russia, e neppure in ultima istanza l’Unione e i suoi membri, non si capisce quale dovrebbe essere l’alternativa. Nel frattempo Viktor Orbán minaccia di spostare le riserve ungheresi dal Belgio e amplifica le minacce di Putin: “Mi ha detto che verrà data una risposta decisa” nei confronti degli stati favorevoli alla confisca dei beni russi. Di fronte a una questione come quella ucraina che è di interesse vitale, per la sua sicurezza e per la sua soggettività politica, l’Europa è ancora avvolta nei suoi riti e imbrigliata nei suoi veti, pronta a dare l’ennesima dimostrazione di irrilevanza.

Meno esistenziale del sostegno all’Ucraina, e proprio per questo più imbarazzante, è la questione dell’accordo di libero scambio con i paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay). Parliamo di un trattato commerciale il cui negoziato è cominciato nel 1999, ostacolato da interessi particolari trasversali nei due continenti, che però nel complesso è benefico per tutti visto che riduce i dazi e uniforma le barriere non-tariffarie. Le rinunce più grandi sono certamente quelle dei paesi Sud Americani, che dopo tanto tempo si sono convinti ad aprire il mercato, rinunciando alla protezione tariffaria e regolatoria delle proprie industrie, che sono meno competitive di quelle europee, e accettando anche nuovi standard sociali e ambientali. Dopo 25 anni di tira e molla, la Commissione europea ha concluso l’intesa sul testo pochi giorni prima dell’insediamento di Donald Trump, cercando di contrastare in anticipo l’ondata protezionista con un’intesa che abbatte le barriere. In un mondo che si divide in blocchi geopolitici, per l’Europa oltre a trovare nuovi mercati di sbocco dopo i dazi di Trump, l’accordo è di importanza strategica per garantirsi l’approvvigionamento di energia e materie prime critiche. Si tratta, insomma, di un pezzo di quella “autonomia strategica” che è al centro di tanti convegni e seminari. Ma cosa succede?

La Francia, che a parole sfoggia la sua grandeur le sue ambizioni di potenza internazionale, chiede di bloccare tutto per le proteste degli agricoltori. Emmanuel Macron vuole contrapporsi a Trump e Putin ma si ferma davanti ai trattori. “Se la Commissione europea vuole andare avanti questo fine settimana, la Francia voterà contro il trattato con il Mercosur”, ha detto ieri all’Assemblea nazionale il traballante primo ministro Lecornu. E contemporaneamente Giorgia Meloni, che pure a parole celebra il made in Italy, la forza dell’export italiano e ricorda i legami economici e le comuni radici culturali con l’America latina, sostiene le proteste degli agricoltori e appoggia la richiesta francese di rinviare di un mese la firma dell’accordo, che era prevista per il 20 dicembre.

Cosa dovrebbe cambiare a gennaio non è chiaro. Il presidente brasiliano Lula, attuale presidente di turno del Mercosur che aveva organizzato il vertice con l’Ue per sabato a Foz do Iguaçu, ha prima invitato Macron e Meloni a firmare l’accordo, ma dopo aver saputo della loro volontà di procrastinare ha minacciato di mandare tutto all’aria: “Se non lo facciamo ora, il Brasile non firmerà più questo accordo finché sarò presidente”. Il problema non è il mese ulteriore di ritardo dopo 25 anni di negoziato, ma la scarsa credibilità internazionale di chi annuncia un rinvio il giorno prima della data concordata per la firma. Il momento dell’Europa è ora, non può essere rimandato.

 

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali