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L'editoriale del direttore
Pace, conti, scommesse e nuove generazioni. Viaggio (e tagliando) nell'agenda di Giorgetti
Gli strumenti per sostenere Kyiv sono negoziabili, il sostegno no. La sfida sull’attrattività e la differenza tra necessario e sufficiente. E poi pil, banche, demografia, Olimpiadi. Il pensiero del ministro più influente, con qualche notizia
Giancarlo Giorgetti non è in vena di chiacchiere. C’è una legge di Bilancio ancora da completare, un equilibrio tra gli alleati ancora da trovare, una procedura di deficit da cui ancora deve uscire, un rapporto con i partner europei ancora da perfezionare, una guerra che richiede aumenti di spese ancora da monitorare e riuscire a parlare con il ministro, di questi tempi, è un’opera difficile, praticamente impossibile. Eppure, mai come oggi, capire qualcosa di più su quello che è il pensiero di uno dei motori del governo Meloni è essenziale per eseguire un piccolo tagliando dell’esecutivo e tentare di capire, come da vecchia lezione di Corrado Guzzanti nei panni di Quelo, dove stiamo andando, cosa stiamo dicendo, cosa stiamo facendo.
Parlare con Giancarlo Giorgetti, lo abbiamo detto, è quasi impossibile. Provare a parlare con qualcuno che ha parlato con Giancarlo Giorgetti e che è disposto a spiegare qual è oggi il suo pensiero è altrettanto difficile. Ma a forza di lasciare qualche semino sul terreno qualcosa si riesce a raccogliere. Giancarlo Giorgetti, che in tre anni e mezzo al ministero dell’Economia è riuscito nel miracolo di spingere una maggioranza pericolosamente spendacciona e populista a trasformare la prudenza di bilancio in un tratto identitario assoluto, è molto preoccupato da Donald Trump, è molto preoccupato per ciò che succede in Ucraina, è molto preoccupato per ciò che succede in Europa. Giorgetti non è il leader di nessun partito (per il momento, sussurra qualche suo amico sognatore nella Lega) e deve spesso mediare tra posizioni che non sempre condivide (il rapporto con Salvini, in verità, è infinitamente migliore rispetto a come viene descritto da molti professionisti della zizzania) ma su un punto non ha dubbi: l’Europa, per avere un futuro, deve fare di più, deve diventare più forte, non più debole, e l’Ucraina, per dare un futuro all’Europa, deve essere protetta di più, non di meno. Su entrambi i punti, la posizione del ministro dell’Economia si trova distante anni luce da quella che è l’agenda trumpiana. E su entrambi i punti la posizione di Giorgetti si articola attorno a due capisaldi. In prima battuta, ma questa è solo un’idea politica, Giorgetti è convinto che l’Italia in Europa dovrebbe fare un passo in più per spingere l’Unione europea sulla strada delle decisioni da prendere a maggioranza – la famosa maggioranza qualificata – e non più all’unanimità. Sul secondo fronte, invece, sul sostegno all’Ucraina, Giorgetti, almeno così si capisce da chi ha parlato con lui, considera la direzione dell’Italia giusta, considera lo strumento adottato nel G7 dall’Italia, i cosiddetti Extraordinary Revenue Acceleration (Era) Loans for Ukraine, prestiti garantiti dai profitti straordinari sugli asset russi congelati, l’unico in grado di poter dare un sostegno finanziario a lungo termine all’Ucraina, considera le garanzie che l’Italia potrà dare all’Ucraina per ripagare i danni di guerra non un tema legato al “se” ma solo un tema legato al “come”. Il “se” è scontato: l’Italia pesa per il 10-11 per cento del pil europeo e il suo impegno nella garanzia per la ricostruzione dell’Ucraina avrà quella dimensione quando vi sarà la necessità di mettere in campo qualche misura. Il “come” invece non è scontato e ciò che, in accordo con la premier, e anche con i vicepremier, Giorgetti sta cercando di promuovere in Europa è una battaglia che sente sua: dare la possibilità agli stati membri di stanziare garanzie per l’Ucraina mettendo però quegli impegni fuori dal calcolo del deficit.
Il pacifismo di Giorgetti, dunque, è di tendenza più draghiana che trumpiana, al punto che chi ha visitato recentemente il suo ufficio al primo piano di Via XX Settembre, avvolto dal gelo, dove Giorgetti lavora spesso con indosso una giacca pesante, ha notato che il ministro dell’Economia, come diceva Draghi, tra l’aria condizionata e la pace ha certamente scelto la pace, in attesa di accendere un giorno i riscaldamenti della stanza. E l’attenzione che Giorgetti ha verso la difesa dell’Ucraina, superiore a qualsiasi sua manifestazione pubblica, superiore anche a ciò che al contrario si dovrebbe desumere dalle spese non certo eccitanti previste nei prossimi anni per rafforzare la Difesa, dello 0,15 per cento del pil all’anno per i prossimi tre anni, per la disperazione del ministro Guido Crosetto, è un’attenzione che rappresenta un tratto dell’identità del ministro dell’Economia necessaria da inquadrare: il tentativo di essere ricordato, un giorno, come un ministro che ha provato a pensare più alle generazioni del futuro che al consenso del presente. Non sempre questo approccio è emerso, ma su un punto l’ossessione di Giorgetti coincide con una visione precisa: lo spread basso, il deficit sotto controllo, i conti tenuti a bada, gli interessi sui titoli di stato che scendono, il debito non ingrossato.
Si sarebbe potuto fare molto di più in questi anni, non c’è dubbio, e la crescita asfittica e la produzione industriale disastrosa indicano che, sul fronte economico, il governo ha fatto ciò che era necessario, anche se non sempre ciò che è necessario è sufficiente. Ma l’ossessione del ministro dell’Economia per i conti del futuro la si può dedurre anche da un’altra convinzione maturata in questi mesi: trovare canali per permettere al risparmio degli italiani di essere investito in Italia. Chi ha a cuore le coordinate minime del mercato non può non chiedersi se il dirigismo giorgettiano sul risparmio non presenti qualche elemento di debolezza. Ma chi pone questo tema al ministro si ritrova spesso a ricevere un’argomentazione di questo tipo: non è accettabile che per cercare di avere sostegni agli investimenti italiani sia più semplice rivolgersi a fondi che gestiscono il risparmio di altri paesi che a fondi che gestiscono il risparmio degli italiani. Il governo, su spinta giorgettiana, oltre che osservare con favore la dissoluzione del piano di Generali con Natixis sul risparmio gestito, piano che dovrebbe essere rimosso definitivamente dal tavolo di Generali entro la metà del mese, considererebbe preziosa anche la possibilità di rivoluzionare un tratto della previdenza, per avere maggiori leve per indirizzare il risparmio degli italiani verso investimenti in Italia, ma di più dagli spifferi del Mef non si riesce a ricavare. Se si chiede a Giorgetti cosa pensa dei movimenti, e delle indagini, attorno al risiko bancario, trovare informazioni è praticamente impossibile, anche se ciò che si capisce è che Giorgetti non è particolarmente turbato dalle indagini milanesi, che coinvolgono due azionisti (Milleri e Caltagirone) della banca di cui il Mef è socio, ovvero Mps (e non è turbato neanche dalle polemiche molto forti che ha generato l’uso eccessivo del golden power su alcune partite importanti, come nel caso Unicredit, ma anche su questo punto raccontano che Giorgetti sostiene che la storia gli darà ragione). Ciò che si capisce, invece, è che Giorgetti considera necessario, per l’Italia, il rafforzamento di un Terzo polo bancario, che Giorgetti considera ciò che le banche possono fare per l’Italia superiore a ciò che hanno fatto in questi anni, che Giorgetti considera infine la possibilità che il Mef esca da Mps non come una questione anche qui legata al se o al come ma solo al come, non al se, e il come coinciderà probabilmente con il momento in cui le azioni di Mps saranno alte, il prossimo anno, e con un certo orgoglio, almeno così pare, il ministro dell’Economia sostiene che così come un tempo un cattivo approccio politico portò in acque difficili Mps negli ultimi anni, anche prima di questo governo, una politica più lungimirante ha portato Mps a rinascere e allo stato azionista a guadagnare qualcosa da questa rinascita.
Se a Giorgetti gli si chiede poi di sapere cosa il governo farà per rendere l’Italia più attrattiva il ministro, per quello che si capisce dai dialoghi avuti con alcuni interlocutori, sostiene che non vi sia nulla di meglio per rendere l’Italia più attrattiva che avere una credibilità nella gestione dei conti pubblici tale da rendere possibile la costruzione di un futuro per l’Italia, e tale da rendere il debito nel futuro più sostenibile per le nuove generazioni, anche se purtroppo il debito pubblico italiano, grazie alle performance importanti della Grecia, nell’anno che verrà tornerà a essere quello più alto, in percentuale al pil, di tutta l’Europa. Giorgetti però, almeno così si capisce, non considera il debito italiano un disincentivo agli investimenti, non considera neanche il pil basso un disincentivo agli investimenti, considera l’unico freno vero all’attrattività italiana la giungla selvaggia delle lentezze amministrative, che tiene spesso l’Italia che vuole crescere, che vuole investire, che vuole espandersi inchiodata al presente, cosa che Giorgetti non tollera. Ma rispetto al futuro, invece, quando si parla di pil, Giorgetti alza le spalle, dice che un paese in cui si cresce poco, in cui la crisi demografica, suo grande cruccio, non si riesce a invertire, un paese in cui l’automotive si sta sgretolando, in cui a grandi aziende come Ilva non si riesce a dare facilmente un futuro, in un paese come questo immaginare che vi sia un pil sorprendente non è semplice, è molto difficile, anche se poi se si osserva il pil pro capite si avranno sorprese positive e le dimensioni di quel dato pochi altri paesi in Europa possono rivendicarlo (l’Italia sorprende, ha circa 37-38 mila euro a testa, un livello che la tiene nel gruppo dei grandi paesi benestanti dell’Unione, più vicina a Francia e Germania che al racconto depressivo che facciamo di noi stessi).
Giorgetti sostiene, o almeno così dicono le persone che hanno parlato con lui e colto qualche sussurro dal volto incassato nella giacca pesante che non abbandona quasi mai il ministro, che su Ilva lo stato qualcosa dovrà fare, forse, per provare a fare con l’acciaieria più importante d’Italia e d’Europa ciò che lo stato ha fatto con Ita: salvarla, spiegando agli italiani lo sforzo, per poi trovare un modo per affidarla ai privati. Sostiene, almeno così sembra di capire, che le critiche offerte da chi considera il nostro paese in leggera crescita solo grazie al Pnrr sono critiche ingiuste, perché il Pnrr è composto prevalentemente di soldi presi a debito e se quei soldi non fossero stati messi in circolo grazie all’aiuto dell’Europa sarebbero stati messi in circolo attraverso altro debito che l’Italia avrebbe potuto fare per sostenere le infrastrutture. Del pil, naturalmente, Giorgetti è preoccupato, anche se non ossessionato, e la sua preoccupazione proverbiale è stemperata, in vista del prossimo anno, dalla possibilità che l’Italia abbia qualche decimale in più, sulla crescita, grazie all’indotto generato dalle Olimpiadi, che secondo alcune stime potrebbe portare a una cifra aggiuntiva tra lo 0,2 e lo 0,4 della crescita italiana. Orientarsi nel mondo giorgettiano non è semplice, le contraddizioni ci sono, le domande che ci si potrebbe porre sono molte, i dubbi che potrebbero affiorare sono tanti, i treni che l’Italia poteva sfruttare e che invece ha lasciato andare non sono pochi e i casi di pasticci combinati come quello del Mes, che in astratto al ministero del Tesoro sanno che se mai fosse ratificato potrebbe essere utilizzato a garanzia dei famosi beni russi congelati, esistono.
Ma le coordinate del ministro dell’Economia sono lì, in modo confuso ma coerente, a indicarci una novità importante per la politica italiana, che chissà se varrà anche per il futuro: avere un ministro politico che trasforma la tecnica in politica è un asset fondamentale per ogni governo desideroso di non politicizzare le scelte non negoziabili da fare in economia e anche per evitare che le bandierine che la politica sceglie di far sventolare sulla politica economica, come è stato il dossier sull’oro alla patria su cui Giorgetti è intervenuto personalmente triangolando con il governatore della Banca d’Italia, fino a che sventolano in modo poco doloroso è un conto. Se diventano bandiere in grado di indicare una direzione nuova ne è un altro. Tra l’aria condizionata e la pace, Giorgetti ha scelto la pace. Vale quando si parla di Ucraina, con tutti i rivoli di populismo della politica, vale anche quando si parla d’economia, con tutti i suoi rivoli di cialtronismo della coalizione. Il binario, per quanto instabile, resiste. Non tutto ciò che è necessario, in un governo, è sufficiente, per smuovere il paese nella giusta direzione. Ma fare il necessario per andare nella giusta direzione è già un punto di partenza e se l’Italia è su quei blocchi parte del merito è anche del ministro che ha cercato di far vivere nel governo Meloni le esperienze del governo Draghi, aria condizionata compresa.