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L'analisi
La questione industriale e la manifattura italiana in profonda crisi
La politica, sia l'opposizione che il governo, ignora completamente il declino della manifattura. Due ricerche, una del Centro studi di Confindustria e una dell'Istituto universitario europeo di Fiesole indicano invece problemi e soluzioni
C’è una grande rimozione nel dibattito politico italiano, sia rispetto al peso che ha per l’economia del nostro paese sia per la lunga e profonda crisi che sta attraversando: l’industria. Nella retorica quotidiana si parla genericamente di “made in Italy”, delle “eccellenze italiane” e della “seconda manifattura in Europa”. Nell’agenda politica – si pensi solo al dibattito di queste settimane sulla legge di Bilancio – l’industria è la grande assente. Si parla molto di fisco, pensioni, condoni e addirittura di riserve auree della Banca d’Italia. Ma di industria niente. Eppure da sola genera il 15 per cento del pil del paese (il doppio considerando l’indotto) e circa 120 miliardi di surplus commerciale. Per giunta è un settore con una produttività superiore alla media e che, per questo, paga salari più elevati rispetto ai servizi (+20 per cento), al pubblico impiego (+8,3 per cento) e all’economia totale (+14,5 per cento).
Il problema è che la manifattura italiana è in profonda crisi. Non ci sono solo i casi macroscopici, come l’automotive e l’Ilva di Taranto, ma un declino generale che prosegue ininterrottamente da tre anni. La produzione industriale è diminuita del 2 per cento nel 2023, del 4 per cento nel 2024 ed è in calo di un altro 0,9 per cento nei primi nove mesi del 2025 (in attesa dei dati che diffonderà oggi l’Istat sul mese di ottobre): significa che i livelli produttivi sono ora ben al di sotto di quelli pre-Covid. Insomma, la spina dorsale dell’economia italiana si sta indebolendo sempre di più, a causa di patologie interne e di pressioni esterne. Da un lato gli storici ritardi italiani sul lato dell’innovazione dell’aumento della produttività, dall’altro un contesto internazionale sempre più ostile al nostro sistema produttivo (aumento dei costi dell’energia, chiusura di mercati come quello statunitense, concorrenza delle produzioni asiatiche, crisi del modello tedesco, etc.). La politica si limita a declamare questi problemi o a usare la questione industriale come arma polemica, il governo contro le politiche europee e l’opposizione contro il governo. Ma di analisi e di soluzioni non c’è traccia.
Qualcosa però si muove al di fuori della politica, nei settori economici e accademici. Due esempi. Il primo è la recente pubblicazione, da parte del Centro studi di Confindustria, del Rapporto Industria dal titolo “Manifattura in trasformazione: rimarrà ancora competitiva?” (un fatto particolarmente significativo è che questo rapporto non veniva pubblicato da quattro anni, l’ultima volta è stata nel 2021, in piena pandemia). Il lavoro del Centro studi di Confindustria indica chiaramente che le criticità strutturali dell’economia italiana sono figlie della debole dinamica della produttività. Tra il 1995 e il 2024, sebbene sia aumentata di più rispetto ai servizi e all’economia in generale, la crescita cumulata della produttività nella manifattura (+26 per cento) è stata significativamente inferiore a quella registrata nei grandi paesi dell’Ue: un terzo rispetto a quella di Francia e Germania (+80 per cento tra il 1995 e il 2024) e meno della metà rispetto alla Spagna (+60 per cento). Se l’Europa in termini di dinamismo e innovazione è il malato del mondo (rispetto a Stati Uniti e Cina), l’Italia è il malato d’Europa. Ci sono anche dei segnali positivi, per certi versi sorprendenti: ad esempio, le medie e grandi imprese italiane sono più produttive delle omologhe tedesche, francesi e spagnole. Il problema è che sono troppo poche: in Italia solo il 42 per cento del valore aggiunto manifatturiero è generato da grandi imprese, mentre in Germania è il 75 per cento, in Francia il 74 per cento e in Spagna il 50 per cento. Al contrario, le micro e piccole imprese – che sono molto meno produttive – rappresentano in Italia il 30 per cento del valore aggiunto, il triplo rispetto alla Germania e il doppio rispetto alla Francia.
L’altro documento interessante sul tema è un e-book dell’Istituto universitario europeo (Eui), scritto dagli economisti Marco Buti, Stefano Casini Benvenuti e Alessandro Petretto, dal titolo “La sfida della reindustrializzazione: dalla Toscana all’Italia e all’Europa”. Al centro del volume c’è il tema della “deindustrializzazione” della Toscana, che rappresenta un microcosmo dell’economia italiana con le sue eccellenze, le sue peculiarità e le sue criticità: settori dinamici come la farmaceutica, in crisi come il tessile, forte esposizione all’export americano e ai dazi di Trump, e crescita in settori a più basso valore aggiunto come il turismo. Invertire il declino e “reindustrializzare” non significa proteggere l’esistente, ma innovare con politiche industriali in grado di gestire la “distruzione creatrice” spostando le imprese italiane su un livello maggiore di competitività. Il manifesto sulla “reindustrializzazione” dell’Eui offre alcune proposte per la Toscana, e in capitoli specifici per le altre regioni italiane. Ma il punto di partenza dell’analisi, che coincide con quella del Centro studi di Confindustria, è che la criticità fondamentale è la scarsa produttività: i salari sono bassi, e addirittura in calo, non perché siano aumentati i profitti (anzi, neppure quelli non se la passano bene) ma perché si produce meno valore aggiunto per ora lavorata.
Trovare soluzioni per invertire la rotta non è semplice, ma bisognerebbe quantomeno essere consapevoli del problema. L’aspetto più preoccupante è proprio che la questione industriale è largamente ignorata, dal governo di centrodestra che non ha fatto una sola riforma per affrontare il nodo della produttività e dall’opposizione di centrosinistra che pensa che il problema essenziale sia la redistribuzione della torta e non il fatto che la torta si stia rimpicciolendo.