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il rischio
L'operazione Ferrovie-Pizzarotti può uccidere la concorrenza
Nell’assenza di un qualunque confronto concorrenziale e di un effettivo rischio di fallimento, come si può stabilire se l'investimento sia assennato o l’ennesimo salvataggio di un’impresa in difficoltà più o meno temporanea?
Il termine per le offerte vincolanti per il ramo ferroviario di Pizzarotti, originariamente previsto per ieri, è stato rinviato al prossimo 12 dicembre. Al momento sarebbe rimasto in pista un solo potenziale compratore, cioè le Ferrovie dello stato (Fs). Pizzarotti, un costruttore da 1,5 miliardi di fatturato nel 2024 attualmente in composizione negoziata, ha un debito di oltre 400 milioni di euro, di cui circa 100 milioni sotto forma di prestito obbligazionario subordinato convertibile verso la Cassa depositi e prestiti (Cdp). La vendita del ramo d’azienda, dunque, risponde a una strategia di risanamento che ha nello stato l’interlocutore principale, da un lato (attraverso la Cdp) come creditore, dall’altro (attraverso Fs) come acquirente.
Federica Brancaccio, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), ha segnalato al governo vari “dubbi di legittimità” relativi alla violazione di alcune norme del codice degli appalti, alla disciplina generale della concorrenza e alla potenziale concentrazione di rischio in pancia alle Ferrovie (e implicitamente allo stato). Se l’operazione proseguirà, gli aspetti formali dovranno essere valutati in primis dall’Antitrust, il cui via libera è necessario per qualunque concentrazione di queste dimensioni.
Ci sono, però, due elementi sostanziali, che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti dovrebbero considerare con attenzione prima di appoggiare una manovra spericolata, già incautamente benedetta dal ministro Adolfo Urso (“il settore delle costruzioni ha bisogno di consolidarsi e di competere al meglio nel realizzare le grandi opere, alcune delle quali sono finanziate con Pnrr e quindi hanno tempi molto stringenti. E’ giusto che le aziende a controllo pubblico si occupino anche di come poter raggiungere questi obiettivi”). Il ministro delle Imprese e del Made in Italy ha perfettamente centrato il punto, ma la sua analisi va rovesciata.
Per cominciare, c’è la questione della concorrenza. Le Ferrovie sono la principale stazione appaltante a livello nazionale, con un portafoglio di investimenti di circa 100 miliardi di euro. Si tratta di un quarto di tutte le opere pubbliche italiane, a cui si aggiungono quelle della controllata Anas. In astratto, l’integrazione verticale può essere una scelta razionale: significa che il committente ritiene che vi siano ragioni economiche o di coordinamento per internalizzare l’esecuzione dei lavori, anziché rivolgersi a terzi col rischio di una disomogeneità nei lavori eseguiti. Ma Ferrovie non è come tutti gli altri, per almeno due buone ragioni. Da un lato, gran parte dei lavori in questione nasce da decisioni politiche ed è finanziata dal denaro pubblico. Fs, dunque, non si assume un vero e proprio rischio di impresa, in quanto agisce a nome e per conto del governo. Per giunta, e questo è il secondo argomento, Fs gestisce la rete ferroviaria sulla base di una concessione rilasciata nel 2000 per una durata di 60 anni. Ciò determina una situazione del tutto peculiare, in cui potrebbe far leva sul monopolio a monte (la concessione) per escludere la concorrenza a valle (l’esecuzione dei lavori).
Nell’assenza di un qualunque confronto concorrenziale e nell’assenza di un effettivo rischio di fallimento, come si può stabilire se sta facendo un investimento assennato oppure si sta prestando all’ennesimo salvataggio di un’impresa in difficoltà più o meno temporanea? Fs è l’unico tra i pretendenti ad aver accettato sia il perimetro della cessione sia la richiesta economica (180 milioni), giudicata eccessiva dagli altri (Ghella, Webuild e Saipem). Ma, anche se non si sentisse odore di aiuto di stato, sarebbe comunque preoccupante la risultante situazione nel mercato delle costruzioni: uno dei maggiori costruttori italiani entrerebbe nell’orbita pubblica. Andrebbe così ad affiancarsi al più grande di tutti, cioè Webuild, nato in occasione del bailout di Astaldi nel 2018 con la convergenza tra Salini Impregilo e l’onnipresente Cdp.
Urso, dunque, ha ragione a lamentare la frammentazione del settore, ma scambia la causa per l’effetto: come possono crescere gli operatori privati, se il mercato viene occupato da soggetti para-pubblici (Webuild), il denaro pubblico è impiegato per ricapitalizzare aziende in crisi e addirittura – se le Ferrovie si porteranno a casa Pizzarotti – l’accesso a una consistente fetta dei lavori pubblici viene precluso?
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