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Soldi persi

L'Italia ha imparato a spendere i fondi europei? Il vero guaio del Pnrr è quello che accadrà dopo

Marco Leonardi

Con l'approvazione dell'ultima revisione, il governo libera circa 5 miliardi da utilizzare nella legge di bilancio. Dai fondi‐veicolo agli investimenti su idrico e dissesto idrogeologico, c'è da sperare che quelle risorse non finiscano nel limbo dei fondi che restano “parcheggiati” per anni

Siamo davvero arrivati alla fine del Pnrr. Con l’ultima revisione, che il Consiglio Ue approva definitivamente proprio in questi giorni, il governo libera circa 5 miliardi da utilizzare nella legge di bilancio. È l’esito di un’operazione tecnica che abbiamo già spiegato: si pagano con il Pnrr alcune spese già sostenute negli anni scorsi e, facendo leva su questa ricomposizione dei saldi, si liberano risorse equivalenti per la manovra. Il Piano è stato usato non solo come strumento di investimento, ma anche come leva di finanza pubblica.

 

                 

Accanto a questo intervento sui saldi, la revisione crea una serie di fondi‐veicolo con cui spostare in avanti spese che non sarebbe stato possibile completare entro agosto 2026. Si tratta dei quasi 3 miliardi per comunità energetiche, biometano e agrivoltaico; dei 600 milioni necessari a collegare alla banda ultralarga i 700 mila civici ancora in ritardo; e del fondo per realizzare gli ultimi 30 mila posti negli studentati, ormai impossibili da consegnare nei tempi del Piano. A questi si aggiunge un nuovo fondo per gli investimenti su idrico e dissesto idrogeologico. Tutto giusto: purché quei soldi vengano davvero spesi, e non finiscano nel limbo dei fondi che restano “parcheggiati” per anni. Perché allora sarebbe meglio restituirli e abbattere il debito pubblico o destinarli alla difesa come ha fatto la Polonia. Tanto ormai è chiaro che l’Italia dovrà trovare altri soldi per la difesa nei prossimi mesi. Il punto, infatti, è sempre lo stesso: l’Italia ha storicamente un problema di spesa effettiva. I fondi di coesione ordinari sono l’esempio perfetto: risorse che passano da un settennato all’altro senza toccare terra, riprogrammate più volte e impiegate come slogan elettorali più che come leva di sviluppo.

Il Pnrr ha dimostrato cosa succede quando, invece, la macchina dello stato è costretta a spendere davvero: negli ultimi tre anni abbiamo messo a terra circa 30 miliardi l’anno, e questo flusso di investimenti pubblici ha sostenuto la crescita italiana più di ogni altra politica economica. Oggi è ormai riconosciuto da tutti – anche da chi fino a ieri insisteva nel negarlo – che senza il Pnrr la dinamica del pil sarebbe stata molto più debole. Il vero problema è ciò che accade dopo il Pnrr. Il nuovo Patto di stabilità europeo richiede che l’Italia mantenga un livello elevato di investimenti pubblici, non inferiore a quello garantito dal Piano. È la condizione necessaria per accompagnare la riduzione del debito senza deprimere la crescita. Ma come farlo? Le uniche strade sono due: la riforma della coesione europea e la riforma della coesione nazionale. Della riforma europea abbiamo già discusso: nel nuovo bilancio dell’Unione le risorse per la coesione tendono fisiologicamente a ridursi perché avanza la voce “competitività”, che serve a finanziare transizione tecnologica e difesa.

E’ un cambiamento inevitabile, e in parte condivisibile. Ma ciò rende ancora più decisiva la coesione nazionale, che è stata completamente ridisegnata dal ministro Fitto. Non esistono più assi tematici né programmazioni pluriennali: ora ogni ministero e ogni Regione presenta singoli progetti che vengono inseriti in un’unica lista nazionale e validati dal Dipartimento per la Coesione. L’idea è avere un controllo molto più stretto sull’attuazione puntuale, replicando uno dei punti di forza del Pnrr: il monitoraggio costante dei progetti. Il vantaggio è evidente: meno dispersione, più tracciabilità. Ma c’è anche un rovescio della medaglia, che rischia di diventare pesante. Il ministro ha mantenuto per sé una riserva di miliardi non definiti, la cosiddetta “lettera A” della nuova coesione nazionale: risorse che possono essere assegnate in modo del tutto discrezionale, senza una griglia di programmazione. E i primi segnali non sono incoraggianti.

Pochi giorni prima delle regionali in Abruzzo è stato finanziato il progetto della Roma–Pescara; ora arriva, con la tradizionale delibera Cipess, la prima assegnazione nella storia della coesione al ministero degli Esteri, che userà 200 milioni di fondi nazionali destinati allo sviluppo per promuovere il “turismo delle radici”, cioè il turismo di ritorno degli emigrati, concentrati solamente in Puglia e Campania che hanno firmato gli accordi pochi giorni prima del voto regionale e nel Lazio guarda caso il collegio elettorale del ministro. Per di più è ben possibile – dato che il progetto appare pretestuoso – che quei fondi rimangano una mera promessa politica e non siano mai spesi, impegnando così inutilmente preziosi spazi di bilancio. Non è così che si mantiene il livello di investimenti pubblici richiesto dal Pnrr né così si sostiene la crescita dell’Italia nei prossimi anni. Finora il Pnrr ha funzionato perché costringeva a spendere; adesso bisogna evitare che a funzionare torni soltanto la discrezionalità politica.

 

 

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