Ansa
Negli Stati Uniti
Gli elettori (e chi altri, se no) fanno fare a Trump retromarcia sui dazi
I cittadini americani, preoccupati per il caro vita, chiedono che le tariffe siano decise non solo dal presidente, ma anche dai loro rappresentanti in parlamento. Come recita un principio fondamentale delle democrazie moderne: "No taxation without representation"
Da mesi ci si è chiesti cosa avrebbe indotto Trump a fare marcia indietro rispetto a quella che, secondo il Wall Street Journal, è “la più stupida guerra commerciale mai vista”. La risposta è finalmente arrivata: sono gli elettori. Alcuni avevano inizialmente pensato che Trump avrebbe fatto marcia indietro solo di fronte ai mercati finanziari. Tuttavia, questi si sono mossi in funzione di anticipazioni molto diverse negli ultimi mesi. Dopo il crollo registrato nei giorni successivi al “Liberation day”, ai primi di aprile, Wall street si è ripresa rapidamente, trascinata dal settore tecnologico e dalle prospettive di tassi d’interesse più bassi. Solo dopo le elezioni di novembre sono emersi segnali di inversione di tendenza.
La sconfitta alla tornata elettorale dei primi di novembre – a New York, nel New Jersey, in Virginia e in California – ha mostrato che il caro vita è al centro delle preoccupazioni dei cittadini americani. I quali ritengono che la colpa ricada in gran parte sulla nuova Amministrazione. L’indice di gradimento netto (la differenza tra i favorevoli e contrari) dei cittadini nei confronti della politica economica americana è calato di oltre 10 punti dai primi di aprile, raggiungendo un livello negativo di -12. La reazione dell’Amministrazione non si è però fatta attendere. L’aumento dei prezzi al dettaglio di alcuni beni importati, come il caffè, le banane, la carne e un gran numero di altre derrate agricole ha indotto a fare retromarcia sui dazi cosiddetti “reciproci” che erano stati imposti nei confronti di quasi tutti i paesi esportatori verso gli Stati Uniti. Sono stati esentati circa un centinaio di prodotti.
Di fatto, viene riconosciuto che i dazi sono pagati dai cittadini americani e non dagli stranieri come si era cercato di far credere. Questi dazi fanno salire i prezzi e penalizzano soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Non provocano, come qualcuno aveva sostenuto, lo spostamento della domanda verso prodotti americani (anche perché l’America non produce banane o caffè). La retromarcia pone tuttavia problemi di natura sia economica sia politica.
Con la riduzione delle tariffe vengono meno le entrate fiscali necessarie per finanziare i sussidi decisi a favore delle grandi aziende tecnologiche, nell’ambito della legge di bilancio – la Big Beautiful Bill – approvata nel luglio scorso. L’Amministrazione si è subito affrettata ad aumentare altri dazi, in particolare sull’alluminio e l’acciaio, per cercare di compensare le minori entrate. Le nuove tariffe colpiscono però prodotti intermedi, necessari per la produzione di beni di consumo, come le automobili, che in questo modo rischiano anch’essi di rincarare. Non poi è detto che le nuove tariffe consentano di compensare le minori entrate dovute alle esenzioni appena decise sui dazi. Il deficit di bilancio rischia così di aumentare nei prossimi anni, rendendo il debito ancor più insostenibile. Anche perché subito dopo la sconfitta elettorale Trump ha promesso un assegno di 2000 dollari a tutte le famiglie americane.
C’è anche un problema di natura politica. L’aumento di nuove tariffe, in sostituzione di quelle appena ridotte, evidenzia come l’obiettivo principale dei dazi non è legato alla sicurezza nazionale, né alla difesa della produzione strategica, come era stato sostenuto dall’Amministrazione, ma piuttosto alla necessità di fare cassa. La differenza non è banale. Il presidente non ha infatti il potere di decidere da solo in materia di tasse, senza il consenso del Congresso. Può decidere, emettendo decreti presidenziali di urgenza, solo in materia di politica estera e di sicurezza nazionale. La questione fondamentale è se i dazi possono essere assimilati a quest’ultima tipologia di misure oppure se rientrano nel novero delle misure fiscali. Sarà la Corte suprema degli Stati Uniti a decidere, dopo il ricorso avanzato da vari parlamentari rispetto alle misure tariffarie imposte dall’Amministrazione nei mesi scorsi.
E’ in ballo un principio fondamentale delle democrazie moderne: “no taxation without representation”. In altre parole, se sono gli americani a pagare i dazi, come qualsiasi altra tassa, sta ai loro rappresentanti – ossia al potere legislativo e non al solo esecutivo – deciderlo. L’esenzione di alcuni prodotti dai dazi, decisa subito dopo le elezioni di qualche settimana fa, e l’imposizione di nuove tariffe su altri prodotti, rende più difficile argomentare che queste misure siano legate alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e che la decisione rientri nei poteri esclusivi del Presidente. Se la Corte adotterà questa posizione, si apre uno scenario pieno di nuove incertezze.
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