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Contro la politica del fare di più

L'economia è la croce e la delizia del melonismo. Come si passa dalla prudenza al coraggio

Claudio Cerasa

Il pil è quello che è, il governo galleggia, l’opposizione farfuglia, le imprese latitano e una svolta è necessaria: per dare una svolta all’economia non serve più stato, ne serve meno. Meno regole, più crescita. Ipocrisie da combattere

Croce o delizia? Prudenza o coraggio? Soluzioni o capri espiatori? Per il governo Meloni, l’economia, per quanto possa essere paradossale, è allo stesso tempo il suo punto di forza e il suo punto di debolezza. E’ il suo punto di forza perché, in questi anni, Meloni è riuscita a combattere i pregiudizi nei suoi confronti, molti dei quali perfettamente legittimi, con una credibilità conquistata grazie a uno strumento incompatibile con l’agenda del populismo: la prudenza. Il populista, il nazionalista, il sovranista, sono l’antitesi della prudenza. E aver messo in campo una politica cauta sul fronte dei conti pubblici ha permesso a Meloni di essere giudicata, dai suoi partner internazionali, come una politica accorta, previdente e dunque non irresponsabile. Aver tenuto i conti in ordine ha permesso all’Italia di avere rendimenti più bassi sui titoli di stato, ha permesso di avere una valutazione più alta da parte delle agenzie di rating, ha permesso di avere maggiori investimenti nel paese, ha permesso alle aziende di avere costi minori nelle operazioni di finanziamento del mercato e ha permesso allo stato di avere qualche risorsa in più per sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori. La delizia economica del governo è tutta qui, e non è poco aver trovato la chiave giusta anche per uscire con un anno di anticipo dalla procedura di infrazione sul deficit (se questa manovra vi sembra demagogica, e non lo è, è perché non abbiamo ancora visto la prossima, l’ultima prima delle elezioni). Ma l’economia, improvvisamente, sta diventando anche lo specchio delle occasioni perse dal governo, e il dato offerto due giorni fa dall’Unione europea, relativamente alla crescita dell’Italia, ultimo paese dell’Eurozona, è un dato che fotografa il vero punto di debolezza del governo Meloni: non essere riusciti a trovare le leve giuste per far crescere il paese nonostante palate di miliardi dall’Europa, nonostante la prudenza sui conti, nonostante la credibilità internazionale affermata, nonostante una stabilità rivendicata, nonostante un’opposizione impalpabile, nonostante una congiuntura politica all’interno della quale l’unico nemico del governo, in fondo, è il governo stesso.

I numeri dell’Italia che non va, purtroppo, non sono solo quelli legati alla crescita. Ma sono anche quelli legati alla produttività del lavoro (aumentata dal 1995 al 2024 dello 0,4 per cento, rispetto a un’area euro che l’ha aumentata dell’1,3 per cento). Sono anche quelli legati ai salari reali (siamo l’unico grande paese europeo con salari reali più bassi di trent’anni fa). Sono quelli legati agli investimenti privati in ricerca e sviluppo (la media dell’Eurozona è 1,6 per cento, l’Italia è a 0,6 per cento). Sono quelli legati alla crescita industriale (dal 2010 al 2024, la crescita industriale dell’Italia è stata del 3 per cento, la Germania ha segnato un più 18 per cento, la Spagna 17, la Francia 11). Solitamente, quando un governo si trova in difficoltà sull’economia ha di fronte a sé tre strade.

La prima strada è negare il problema e parlare solo dei dati positivi ignorando quelli negativi (se non ci fosse stato il Pnrr, le percentuali da prefisso telefonico della nostra crescita avrebbero avuto un segno negativo, non positivo). La seconda strada è non negare il problema e parlare di chi avrebbe reso impossibile la risoluzione del problema individuando un qualche capro espiatorio (difficile individuarlo nell’Europa, i cui burocrati, così detti, godono della fiducia del partito guidato dal primo ministro italiano, che esprime anche il vicepresidente della Commissione). La terza strada è non negare il problema e cercare delle soluzioni per risolvere un guaio. La terza strada è certamente quella migliore da seguire. Ma anche in questo caso la politica, quando cerca di risolvere un problema chiamato crescita, si muove come un cane che si morde la coda, seguendo uno schema consolidato, spericolato e autolesionistico, all’interno del quale lo spartito è sempre lo stesso: un’opposizione che chiede più spesa, un mondo industriale che chiede più sussidi, un governo che cerca un modo per drogare momentaneamente l’economia con qualche misura estemporanea. Lo spartito, dunque, è sempre quello: l’economia va in difficoltà e tutti gli attori chiedono alla politica, e al governo in particolare, di fare di più, molto di più, ancora di più. La crescita economica dell’Italia, tranne negli anni di rimbalzo successivi al Covid, va male da molto tempo e verrebbe da dire che va male anche perché l’approccio appena descritto, chiedere alla politica di fare di più quando si ha un problema economico da governare, è forse l’opposto di quello che si dovrebbe adottare di fronte a una crisi. Non chiedere a un governo di fare di più ma iniziare a chiedersi se il governo di fronte a una difficoltà non dovrebbe mettere in atto una qualche strategia anche per essere meno presente, meno invasivo e fare di meno. Avere a disposizione molti soldi da spendere, in situazioni di difficoltà, può aiutare naturalmente a rimettere in piedi l’economia, come sta accadendo nella Germania di Friedrich Merz (il cui governo ha contribuito a far nascere un fondo di investimento da 500 miliardi per potenziare le infrastrutture). Ma quando le disponibilità non ci sono, e nel passato sono state impiegate per provvedimenti che non hanno contribuito a sostenere la crescita a lungo termine, la strada del fare di meno dovrebbe essere quanto meno presa in considerazione. Dove per fare di meno si intende l’ovvio. Meno barriere, meno divieti, meno burocrazia, meno vincoli, meno concertazione, meno contratti costruiti lontano dal sistema della contrattazione decentrata, meno regolamenti ambientali costruiti sulla base dell’ideologia e contemporaneamente, dunque, più concorrenza, più innovazione, più competizione, più apertura, più riforme a costo zero, più regole stabili, più certezza del diritto.

Il ragionamento vale per quanto riguarda l’Italia, naturalmente, e vale anche per quanto riguarda l’Europa, e una politica con la testa sulle spalle dovrebbe avere il coraggio di chiedere all’Europa di fare di più quando si tratta di sovranità europea e di chiedere di fare di meno invece quando si tratta di impedimenti e costrizioni e fardelli che ostacolano la competitività delle imprese. L’economia, per Meloni, è insieme una croce e una delizia. Una delizia se si ragiona sulla prudenza. Una croce se si ragiona sul coraggio. Tornare a crescere, naturalmente, non sarà semplice, le bacchette magiche non esistono, i soldi sono quelli che sono, anche se quelli europei sono molti. Iniziare a chiedersi però cosa un governo possa fare di meno per provare a ottenere di più potrebbe essere una chiave utile per ragionare attorno a un tema su cui misurare l’ambizione e il coraggio del governo: mettere la politica al servizio dell’economia, e non il contrario.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.