Foto Ansa
girotondo
I veri tabù sulla crescita
I salari che non girano, le imprese sostenute a parole, la spesa pubblica che non crea pil, lo status quo che alimenta l’incertezza. Come far marciare il cavallo dell’economia? Girotondo di opinioni
La crescita riparte dai salari (non minimi)
Rispondo di buon grado alla richiesta del direttore su tabù e “must” per lo sviluppo. Provo a farlo in poche righe, con “passo fogliante” e contenuti Cisl. Dunque. La stagione dei fan della decrescita, che mai e poi mai è felice, per fortuna sembra finita. Le diffuse preoccupazioni, vere o strumentali, verso un pil da zero-virgola mettono in luce almeno un generale allineamento su un principio base: crescere è meglio di arretrare. Poi c’è il tema della redistribuzione, che è affare di Stato, ma anche (tanto) di parti sociali. Ma a monte bisogna crescere. E per crescere bisogna ritrovarsi su obiettivi comuni. Salari e produttività, insieme, perché insieme si influenzano. Innovazione e formazione: un euro sull’una per ogni euro sull’altra. Flessibilità e partecipazione, perché dove c’è scambio e reciproca convenienza si riescono a spezzare le catene degli orari e degli spazi novecenteschi. Alla base (e in cima) a tutto: salute e sicurezza, come dovere morale e legale ovviamente, ma anche perché dove si lavora più sicuri si fa anche più fatturato. In poche parole: si cresce se si aumenta la qualità del lavoro, il protagonismo e la responsabilità di chi lavora, il valore prodotto da ogni ora lavorata. Per fare tutto questo bisogna costruire un Patto per il lavoro, che dia protagonismo all’incontro libero, prossimo e autonomo tra impresa e sindacato. Vuol dire fare della contrattazione decentrata un motore che spinge e alloca la ricchezza su salari più alti e orari più leggeri. Un patto che stabilisca, in principio, il diritto alla contrattazione collettiva decentrata, che sia aziendale o territoriale, per avvicinare le risposte alla persona e allontanare soluzioni indifferenziate. No a salari minimi di legge. No a gabbie salariali. No a rappresentanza regolata dallo Stato. Soluzioni che indeboliscono le relazioni sociali, mortificano la democrazia economica e sostanziale, schiacciano salari medi e tutele contrattuali. Ci vuole un Patto, un nuovo corso nel solco del metodo Tarantelli. Nuova e agile concertazione tra riformisti; nuovi contenuti, stesso spirito di corresponsabilità del 1984 e del 1993. Lo diremo domani a Roma, insieme alle rappresentanze delle imprese.
Daniela Fumarola, segretaria della Cisl
Non c’è redistribuzione senza i cavalli di razza delle imprese
In Italia discutiamo troppo di redistribuzione, e mai abbastanza di crescita economica e produttività. Intendiamoci: è una scelta politica legittima, anche perché il capitalismo difficilmente viene compreso e apprezzato quando il salario reale medio per i lavoratori non cresce. Tuttavia, resta un’illusione pensare di risolvere i problemi italiani esclusivamente tramite la redistribuzione delle fette di torta quando la torta non cresce. In maniera strutturale, come dicono i marxisti. Ogni tanto bisognerebbe rileggersi “il cavallo non beve”, famoso editoriale di Libero Lenti, uscito sul Corriere della Sera nel 1964: non è soltanto una riflessione sui tassi d’interesse bassi che non bastano per convincere le imprese a fare investimenti. Il punto culturale sottostante è molto più forte: la crescita economica dipende essenzialmente dall’apparato produttivo, cioè dalle imprese e dai lavoratori. Non i cavalli di razza della Democrazia cristiana (avercene!), ma i cavalli di razza delle imprese. Nessuno nega la dialettica esistente tra capitale e lavoro, ma le imprese private non dovrebbero essere trattate sistematicamente con un malcelato fastidio ideologico. Poi c’è l’altro tabù: gli Stati Uniti come baricentro del sistema capitalistico. Nel dibattito pubblico italiano l’America è spesso vista come entità malvagia, intrisa di feroce neoliberismo. Quando poi si critica – anche giustamente – il presidente Trump per le sue scelte protezionistiche ci si dimentica il fatto che questi dazi per decenni sono stati propagandati da larghi settori della sinistra come strumento per proteggere l’industria nazionale nascente contro la brutta concorrenza straniera (decidersi: l’America liberista è cattiva anche quando non fa la liberista e mette i dazi?) La storia economica degli Usa, strutturalmente basata sull’importanza cruciale delle libere imprese, è fatta di successi ottenuti quando i suoi avversari geopolitici – che sono tipicamente anche i nostri – tifavano per un sorpasso definitivo da parte del concorrente di turno. Qualcuno si ricorda la concorrenza del Giappone negli anni 80 del secolo scorso? Di sorpasso neanche l’ombra. Oggi, chi fa il tifo contro gli Usa e contro il modello capitalistico occidentale finisce per guardare con occhi innamorati al modello di sviluppo della Cina, e spesso sono gli stessi professori, politici e giornalisti che sono ossessionati dalla redistribuzione.
Riccardo Puglisi, professore di scienza delle finanze all’Università di Pavia
Paletti necessari per aiutare le imprese, oggi più che mai
Quando i conti non tornano e le prospettive economiche sono incerte, per quanto paradossale sia, è la stessa crescita che può diventare un tabù. Troppo complicato realizzare progetti di sviluppo: meglio tagliare, lavorando con l’accetta piuttosto che di fioretto. E così si arretra o, nella migliore delle ipotesi, si resta fermi. Tra i problemi del paese, lo sanno tutti, ci sono la scarsa produttività e un deficit di competitività che zavorra il sistema delle imprese. La produttività, però, non è solo una funzione del fattore lavoro, ma dipende innanzitutto dalla capacità di innovare processi e prodotti e da una più efficace organizzazione del lavoro. Così come è basilare che il territorio sia attrezzato con infrastrutture e servizi necessari a favorire l’attività imprenditoriale. Si possono, poi, anche aiutare le imprese, ma a condizione che innovino, non delocalizzino e rispettino i contratti. Sono concetti banalissimi, da istituzioni di economia, ma pochi hanno il coraggio di ammettere che il re è nudo e trovano più semplice seguire la strada della svalorizzazione del lavoro, una sorta di ammortizzatore della carenza di competitività, a lungo andare comunque inefficace. In questo quadro, anche il sindacato ha il dovere di accettare convintamente la sfida della produttività del lavoro, chiedendo che sia incentivata la contrattazione di secondo livello, terreno sul quale quel fattore può essere gestito e regolamentato. In Italia, c’è una questione salariale che va risolta agendo, da un lato, sulla leva fiscale e, dall’altro, su quella della contrattazione, a partire dal consolidamento del contratto collettivo nazionale di lavoro. Peraltro, è questa la logica alla base della detassazione degli aumenti contrattuali voluta dalla Uil e accettata dal governo con la recente manovra. E allora, c’è un ultimo tabù da abbattere: attuare compiutamente l’articolo 39 della Costituzione. La rappresentatività va misurata e certificata in tutti i luoghi di lavoro. Solo così si possono destrutturare i contratti pirata e garantire condizioni salariali e diritti degni di un paese che voglia puntare davvero sulla crescita.
Pierpaolo Bombardieri, segretario della Uil
La spesa pubblica e i suoi eccessi, ci dicono molto sulla non crescita in Europa
Il tabù delle crescita è la crescita stessa. Nel senso che se uno parla della crescita come origine di tanti nostri guai rischia di venire messo in un angolo come un tipo noioso che parla sempre d’altro e non smette mai di ripetere le sue fissazioni. La spesa sanitaria pro capite è più bassa che in quasi tutti gli altri paesi dell’Eurozona? Certo! E lo stesso vale per la scuola, la ricerca, la protezione dell’ambiente, il sostegno delle famiglie ecc. ecc. In effetti basta guardare la spesa totale (primaria): in Italia è un misero 18 mila euro pro capite, mentre in Germania è 24 mila euro pro capite (+30 per cento rispetto all’Italia), in Francia 23 mila (+25 per cento), in Olanda 25 mila (+41 per cento). Chi lamenta che non spendiamo abbastanza ha dunque le sue ragioni! Ma il tipo noioso che non ama i tabù fa notare che negli ultimi tre decenni tutti questi paesi sono cresciuti più dell’Italia, il che significa che in rapporto al pil la spesa di questi paesi è più bassa o al più uguale a quella dell’Italia: in Italia la spesa primaria è al 50 per cento del pil, mentre in Germania e Olanda è al 48 e 43 per cento rispettivamente. In Francia è leggermente più alta che in Italia (52 per cento), ma se la Francia avesse il misero pil pro capite dell’Italia, a parità di altre condizioni, la sua spesa/pil sarebbe al 63 per cento! Quando qualcuno mena scandalo perché gli stipendi italiani sono cresciuti meno che in quasi tutti gli altri paesi dell’Ocse il tipo noioso fa notare che è difficile che gli stipendi crescano quando il paese non cresce: dal 1995 a oggi il pil pro capite è cresciuto in Italia al ritmo medio dello 0,5 per cento all’anno, il valore più basso d’Europa. Nello stesso periodo, in Germania è cresciuto al ritmo di 1,1 per cento, in Francia 1 per cento, in Olanda 1,4 per cento, in Spagna 1,3 per cento. In Grecia, nella disgraziatissima Grecia è cresciuto al ritmo di 1 per cento, il doppio che in Italia. E se poi il tipo noioso fa notare che fra le cause delle mancata crescita c’è, ad esempio, un sistema giudiziario, ahinoi impresentabile, sì proprio impresentabile, rischia che non lo invitino più neanche per una partita a briscola.
Giampaolo Galli, già direttore generale di Confindustria
Il capitale umano è il grande tabù del nostro presente
La brutta notizia, sul fronte economico, è che l’Unione europea ha rivisto al ribasso le stime di crescita per l’Italia: il divario con la media dell’Eurozona è di un punto percentuale e nei prossimi due anni resteremo in coda. La buona notizia è che, grazie alla prudenza del governo sui conti, anche il deficit è più basso di quanto previsto in primavera. I detrattori dell’austerità uniscono i due fatti sostenendo che la bassa crescita dipenda dal rigore nella spesa. Se fosse così, non si capirebbe perché la crescita sia assente da trent’anni, mentre i bilanci in ordine sono stati rari: l’eccezione Monti, poi l’eccezione Meloni. E soprattutto si dimentica che fra poco più di un anno la spesa pubblica dovrà assorbire anche i rimborsi del Pnrr. Bilancio leggero e stagnazione convivono, ma per ragioni diverse. Il rapporto debito/pil mostra che controllare la spesa è solo il primo tempo del film. Il secondo – che aspettiamo da un quarto di secolo – è tornare a crescere. E il pessimismo non è inventato. Dal 2018 al 2023 il tasso netto di turnover delle imprese è negativo per industria e commercio, positivo solo per costruzioni (bonus e Superbonus) e servizi, settore in crescita ma pieno di attività a basso valore aggiunto come turismo e ristorazione. Tra il 2011 e il 2024 abbiamo perso oltre il 30 per cento delle imprese giovani, mentre la loro quota sul totale è calata di più del 3 per cento. E siamo, insieme a Cechia, Ungheria e Romania, il Paese con meno giovani laureati tra i 25 e i 34 anni: appena il 32 per cento. Una società statica e anziana, poco propensa al rischio e con imprese troppo piccole, non si cambia in una legislatura. Ma un governo può insistere sulle basi: ricordarsi che la crescita nasce dalla scuola; che le riforme strutturali non sono maquillage (vedi concorrenza); che la vera innovazione della Pa sarebbe non chiedere dati già in suo possesso; che l’inattività giovanile si combatte favorendo chi vuole fare impresa, non con l’ennesima giornata nazionale; che il capitale da attrarre, in primis nelle università, è quello umano. Da ovunque arrivi.
Serena Sileoni, Istituto Bruno Leoni
La crescita passa da qui: istruzione, innovazione, imprese giovani
Servono scelte lungimiranti per tornare a crescere, e questo passa necessariamente dal valorizzare i giovani. L’Italia ha un grande potenziale nelle nuove generazioni, e oggi più che mai è il momento di metterle al centro. Ricostruire un paese capace di futuro significa adottare uno sguardo che vada oltre l’immediato e oltre le logiche contingenti. La stabilità è fondamentale e aver rimesso in ordine i conti pubblici ci ha restituito credibilità, ma ora occorre compiere un passo ulteriore. Dobbiamo pensare in grande e sostenere la nascita e la crescita di imprese che possano scalare, innovare e competere a livello globale. Anche l’Italia può ambire a creare i propri “unicorni”. In questa direzione va, ad esempio, il “28 regime”, che permette alle nuove imprese di operare in tutta Europa senza barriere e frammentazioni regolatorie. Quando il patto tra generazioni si indebolisce, come sta accadendo, occorre definire priorità chiare. Una di queste è raddoppiare, nell’arco di dieci anni, gli investimenti nella “Filiera Futuro”: natalità, istruzione, innovazione e giovani imprese. Parallelamente, è necessario continuare a rimuovere gli ostacoli allo sviluppo: dall’elevato costo dell’energia alla difficoltà per le nuove iniziative imprenditoriali di accedere al credito, fino al tema della maturità economica che molti giovani faticano a raggiungere. Un paese orientato al futuro non può fare a meno del talento e del contributo delle donne, comprese le tre milioni che oggi restano ai margini del mercato del lavoro. Favorire la loro partecipazione significa rafforzare la crescita, l’innovazione e la competitività. Come Giovani imprenditori siamo pronti a fare la nostra parte, ma serve una rete di servizi che sostenga famiglie e lavoratrici, garantendo reali condizioni di equilibrio e opportunità. E’ un investimento necessario per il paese, per le imprese e per le donne.
Maria Anghileri, presidente di Confindustria Giovani
Il “sesto dominio”