Foto Esercito italiano via Ansa

Il “sesto dominio”

Perché è così salato il conto del ritardo italiano sulla difesa

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Numeri, deficit e lacrime versate. Il capitale umano è il vero collo di bottiglia: non basta “riportare i cervelli a casa” se la Pa e la Difesa non sono nelle condizioni di attrarli, pagarli e farli lavorare con strumenti adeguati

Nel comunicato con cui ha convocato il Consiglio supremo di difesa, Sergio Mattarella ha mandato un messaggio chiaro, che sta finalmente attirando l’attenzione del dibattito pubblico sui temi della sicurezza nazionale: ha portato al centro della scena il “sesto dominio” delle minacce, quello cognitivo. Dopo terra, mare, aria, spazio e cyber, il teatro decisivo diventa la testa delle persone: percezioni, fiducia, narrazioni. E’ lì che si gioca la competizione strategica tra democrazie e potenze autoritarie. Per l’Italia, però, il sesto dominio arriva quando i primi cinque sono ancora incompiuti. E il rischio è di affrontare una guerra multi-dominio con un’architettura tecnologica a macchia di leopardo.

Nel cyber, che è la dorsale tecnica di tutte le altre dimensioni, il paese ha fatto i compiti sulla carta: strategia nazionale, Agenzia per la cybersicurezza, norme sulle infrastrutture critiche. Ma i report di Acn e Clusit sono già oggi un bollettino di guerra. L’Italia è il quinto obiettivo mondiale per attacchi ransomware e la Pubblica amministrazione è il bersaglio preferito. La vera voragine strategica, tuttavia, ha una sigla precisa: Ot, Operational Technology. La vulnerabilità non riguarda le email d’ufficio, ma le infrastrutture critiche: energia, acqua, trasporti e logistica, manifattura. L’analisi Clusit sulle reti industriali è impietosa: oltre il 90 per cento delle aziende italiane esaminate non implementa una corretta segregazione tra la rete It (informatica) e la rete Ot (dei macchinari). Gli attacchi ransomware agli ospedali hanno mostrato che basta colpire un nodo sanitario o un’amministrazione locale per produrre effetti sistemici. Sui territori, molti enti non hanno né Soc (Security Operations Center) né competenze interne: il perimetro di sicurezza è centralizzato, la vulnerabilità è capillarmente distribuita. Il risultato è un paradosso piuttosto italiano: strategia di livello, ma capacità tecnologiche diseguali; eccellenze puntuali accanto a “periferie digitali” che funzionano come porte d’ingresso per attori ostili. Il capitale umano è il vero collo di bottiglia: non basta “riportare i cervelli a casa” se la Pa e la Difesa non sono nelle condizioni di attrarli, pagarli e farli lavorare con strumenti adeguati.

 

Sul fronte cognitivo, il ritardo è ancora più marcato. Il “sesto dominio” non è dunque un raffinato esercizio teorico: è il punto in cui tutte le altre vulnerabilità si moltiplicano. Poi ci sono i droni, che sono la manifestazione più visibile della nuova guerra industriale. L’Ucraina ha dimostrato che l’asimmetria si gioca sul costo per colpire, non solo sul costo per produrre. Schiere di droni economici, adattati dal commercio, possono logorare sistemi difensivi da milioni di euro. Qui l’Italia sconta un doppio gap. L’Esercito ha il suo centro di eccellenza C-UAS (anti-drone). La Marina sperimenta C-UAV e C-USV (droni navali), testando jammer e spoofer Gps. Ma la difesa nazionale rimane un arcipelago di prototipi e competenze verticali. Da un lato, una dotazione insufficiente di droni tattici e di media quota per l’Esercito e per la sorveglianza continuativa del territorio e dei mari. Dall’altro, una difesa aerea e anti drone ancora in fase di costruzione: radar e sensori non sempre ottimizzati per bersagli piccoli e lenti, capacità di jamming e intercettazione a bassa quota limitate, integrazione incompleta con il mondo civile (aeroporti, porti, hub logistici). Il quadro si complica in mare. Gasdotti, cavi sottomarini, terminali energetici e parchi offshore sono la nuova superficie di attacco ibrido. Nel Baltico si è già visto cosa significa sabotare infrastrutture sommerse. Nel Mediterraneo, l’Italia ha la stessa esposizione, ma non ancora la stessa densità di sensori, droni di superficie e sottomarini, piattaforme di sorveglianza automatizzata. La protezione delle “autostrade invisibili” dell’energia e dei dati resta in larga parte ancorata a logiche tradizionali di pattugliamento.

 

Su tutto, pesa il tema industriale. Il dodicesimo pacchetto di aiuti all’Ucraina, il decreto quadro fino al 2026 e l’adesione – per ora congelata – al meccanismo americano Purl (Prioritized Ukraine Requirements List) sono tasselli della stessa equazione: sostenere Kyiv, restare credibili in Nato, ma anche non trasformarsi in puri importatori di sicurezza dagli Stati Uniti. Colmare i gap multi-dominio significa investire in tecnologie nazionali ed europee su cyber, sistemi anti drone, piattaforme unmanned, sensoristica avanzata, AI per il contrasto alle minacce cognitive. Significa accettare che il 2 per cento del pil in difesa non è un feticcio contabile, ma la soglia minima per non dover esternalizzare la propria sicurezza strategica. Il “sesto dominio” ricordato da Mattarella e da tempo all’attenzione (ahimé troppo isolata) del ministro Crosetto è il luogo dove tutto questo si tiene insieme: bit, missili, droni, cavi, percezioni. E’ lì che si decide se l’Italia resta un soggetto della sicurezza europea o scivola nel ruolo di oggetto, difeso dagli altri ma vulnerabile nei propri punti più sensibili.

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