L'editoriale del direttore

Parlare di bolla dell'AI non è più un tabù

Claudio Cerasa

Siamo ottimisti, amiamo l’intelligenza artificiale. Ma sul futuro un rischio c’è: la promessa dei giganti dell’Ai di generare grandi ricavi, quando diventerà realtà? Storia di un crac non impossibile, con risvolti anche per Meloni & Co.

L’articolo che state per leggere non è stato semplice da scrivere perché gli argomenti che abbiamo pensato di trattare oggi sono molto lontani da due elementi identitari che questo giornale ha molto a cuore: cultura dell’ottimismo e amore per l’innovazione. L’amore per l’innovazione e l’ottimismo, in questi mesi, ci ha spinto nientemeno che a sperimentare sulle nostre pagine l’intelligenza artificiale, nelle pagine del nostro formidabile Foglio AI, e se c’è un giornale che quando ragiona di intelligenza artificiale cerca di osservare, con ottimismo, la parte mezza piena del bicchiere, e non quella vuota, quel giornale lo state leggendo in questo momento. Essere ottimisti, però, ed essere innamorati delle innovazioni, non significa smettere di osservare anche la parte mezza vuota del bicchiere. E con una certa lucidità, ieri, due giornalisti dell’Atlantic, grande magazine americano, hanno offerto argomenti seri, precisi, puntuali per illuminare quello che è il vero buco nero che riguarda il futuro quando si parla di intelligenza artificiale. Non c’entra nulla, in questo caso, la tematica dell’etica, la distruzione creatrice, la sostituzione di personale umano con innesti algoritmici. Il grande tema relativo al futuro, quando si parla di intelligenza artificiale, coincide con la stessa potenza di fuoco che ha oggi il mondo dell’Ai. E nel caso specifico corrisponde a una domanda che non sempre viene messa al centro del dibattito quando si ragiona sul futuro della tecnologia. Una domanda semplice: la rivoluzione in cui siamo immersi, che sta creando un boom di investimenti nel settore dell’intelligenza artificiale, ha offerto qualche elemento concreto per comprendere come le aziende che stanno investendo in Ai riusciranno a generare ricavi?

 

Sappiamo, lo scriviamo ogni giorno, che l’intelligenza artificiale sta cambiando il mondo, sta accelerando i processi, sta offrendo opportunità, sta creando efficienza. Ma quello che sappiamo è che al momento nessuna azienda che ha investito con forza nell’intelligenza artificiale è riuscita a guadagnare qualcosa che possa anche lontanamente eguagliare gli investimenti incredibili che sono stati fatti in questi anni sull’Ai. Secondo una stima di JP Morgan, fatta a ottobre, per generare ricavi, dunque utili, il settore mondiale dell’intelligenza artificiale dovrebbe arrivare a 650 miliardi di fatturato annuo entro il 2030: al momento il fatturato delle aziende viaggia tra i 200 e i 250 miliardi, secondo stime di mercato, a fronte di una spesa globale in Ai pari a mezzo trilione di dollari. Si investe molto, si guadagna poco, e anche società tutto sommato piccole prendono rapidamente il volo (Nvidia, che ha appena 36 mila dipendenti, tre volte l’Atac, ha una capitalizzazione enormemente superiore alla capacità reale di generare profitti: valore di mercato 5.000 miliardi, ricavi annui 165 miliardi). Nulla di allarmante, fino a quando gli investitori continueranno a credere alla promessa fatta dai giganti dell’AI, ovvero la creazione di valore e dunque di profitti e dunque di ricavi. Ma se la promessa, per qualche ragione, dovesse fare i conti con la realtà, cosa accadrebbe?

 

Sam Altman, ceo di OpenAI, ad agosto ha detto che “sì, siamo in una fase in cui gli investitori nel complesso sono troppo entusiasti dell’AI” e che “qualcuno si brucerà”. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, il 3 ottobre ha parlato di un’“industrial bubble” legata all’intelligenza artificiale, pur sottolineando che l’AI “è reale e cambierà ogni settore” (un report molto discusso in America, pubblicato ad agosto dal Project Nanda presso il Mit Media Lab, ha sentenziato che allo stato attuale il 95 per cento delle aziende non ottiene alcun ritorno dall’AI generativa). La storia ci insegna che le bolle, di solito, nascono quando vi è un settore in crescita esponenziale sul quale in molti scommettono senza sapere bene in che modo quel settore genererà profitti e quando su quel settore si concentrano praticamente tutti gli investimenti di una precisa fase storica (il 92 per cento della crescita del pil americano nella prima metà del 2025 deriva dagli investimenti in Ai) si capisce bene perché i paragoni con la crisi degli anni Duemila siano sempre più diffusi, non solo tra gli addetti ai lavori.

 

Sam Altman, con ironia, anni fa, per rispondere a domande come queste, quando l’AI farà guadagnare una cifra minimamente paragonabile a quella messa sul tavolo per investire nell’Ai, ha risposto in modo disarmante: “Non vedo il problema: costruiremo una superintelligenza e poi le chiederemo di risolvere anche questo problema”. Nessuno sa naturalmente se la corsa all’Ai produrrà solo successi o se nel breve termine produrrà anche disastri (ma considerando il fatto che l’Ai oggi è anche uno strumento di potere politico, la corsa americana a “non far vincere la Cina” spingerà la politica americana a sostenere il settore dell’Ai anche in caso di crisi). Quello che però dovrebbe essere chiaro per arrivare a parlare d’Italia è che avere una crescita forte, un’economia sana, una produzione industriale in salute, un’attrattività a prova di bomba è cruciale anche in vista di possibili scenari da bicchieri mezzi vuoti: l’Italia, sull’AI, non è esposta, investe poco, è una pecora nera in Europa, ma le destabilizzazioni dei mercati, quando avvengono, colpiscono con forza di solito i paesi indebitati, e fare di tutto per avere un’economia più solida rispetto a quella di oggi non è solo una garanzia di benessere, è anche un’assicurazione contro le crisi del futuro. E se non ci si arriva con l’intelligenza naturale, si può provare facilmente anche con quella artificiale. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.