Google creative commons

L'analisi

Il fisco e le fonti vere della nostra disuguaglianza: la prima, il Mezzogiorno

Nicola Rossi

Le radici del nostro problema distributivo affondano in tematiche strutturali: oltre al sud, la produttività, la concorrenza, l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica, rispetto alle quali si è scelto ormai da decenni di rimanere colpevolmente inerti e passivi

Certe volte cascano proprio le braccia. Estrapolando questo o quel brano dalle audizioni in corso alla Camera (Banca d’Italia: “La riduzione della seconda aliquota dell’Irpef dal 35 al 33 per cento comporta un minore gettito di 3 miliardi all’anno. Ne beneficerebbero i contribuenti con reddito complessivo superiore a 28 mila euro, in misura crescente fino a un massimo di 440 euro annui per redditi pari o superiori a 50 mila euro. Per i redditi superiori a 200 mila euro il vantaggio si potrebbe ridurre, fino ad annullarsi”. Istat: “… oltre l’85 per cento delle risorse [sono] destinate alle famiglie dei quinti più ricchi della distribuzione del reddito. Il guadagno medio va dai 102 euro per le famiglie del primo quinto ai 411 delle famiglie dell’ultimo”. Ufficio parlamentare di Bilancio: “Circa il 50 per cento del risparmio di imposta va ai contribuenti con reddito superiore ai 48.000 euro, che rappresentano l’8 per cento del totale”) si giunge alla conclusione che la legge di Bilancio in corso di discussione in Parlamento è, per semplificare, una legge “pro ricchi”. Ovviamente, a questo risultato si arriva nel momento in cui l’attenzione si concentra sui valori assoluti (aggregati o pro capite) ma è altrettanto ovvio che, essendo l’aliquota proporzionale, il beneficio in termini assoluti sia crescente al crescere del reddito. Insomma, per un verso si chiede che contribuenti più abbienti contribuiscano in misura corrispondente e anzi maggiore rispetto al loro reddito ma, per altro verso, quando si tratta di contenere il carico fiscale ci si comporta come se il modello ideale fosse il testatico, una imposta determinata in cifra fissa la cui riduzione determinerebbe, evidentemente, un vantaggio relativo maggiore per i redditi di minore entità.

 

Dietro questa lettura disarmante, prima ancora che strumentale, della realtà si staglia la convinzione che l’Italia sperimenti un serio problema di disuguaglianza dei redditi. Non è così. Così come calcolato dall’Istat, l’indice di Gini che misura la disuguaglianza del reddito netto familiare (e che è pari a zero nel caso di una distribuzione assolutamente egualitaria) era pari, al netto delle componenti figurative, a 0,333 al momento dell’avvento dell’euro. Venti anni dopo (nel 2023) era pari a 0,331 avendo toccato un picco pari a 0,338 nel 2017. Certo, siamo al di sopra dei nostri principali partner europei ma questo semplicemente perché la fonte principale (e irrisolta) della nostra disuguaglianza si chiama Mezzogiorno. Si dirà che a crescere è stata soprattutto l’area occupata dalla componente più debole della distribuzione del reddito. E’ cresciuta, ad esempio, la povertà assoluta? Per quanto ne sappiamo, sì. A partire dalla crisi del 2008 ma questo semplicemente perché il reddito medio familiare in termini reali non ha ancora recuperato i livelli precrisi (e questo nel Mezzogiorno più che altrove): se il reddito medio familiare si contrae e l’intero paese si impoverisce è inevitabile che una grandezza definita in termini assoluti (come la povertà assoluta) occupi spazi sempre maggiori all’interno della distribuzione.

 

Ci indigna la presenza di picchi particolarmente elevati nella distribuzione? Può anche darsi, ma questo poco o nulla ha a che fare con la riduzione dell’aliquota del secondo scaglione dell’imposta personale e molto con la nostra incapacità, ad esempio, di predicare e praticare la concorrenza. Se un problema distributivo c’è – è sotto alcuni punti, in particolare la fornitura di servizi pubblici, di vista è innegabile – questo non può essere curato (come abbiamo spesso fatto) con qualche ritocco al sistema fiscale, con il risultato di renderlo spesso ancora meno comprensibile, dal momento che le sue radici affondano in tematiche strutturali – la produttività, il Mezzogiorno, la concorrenza, l’efficienza e l’efficacia della spesa pubblica – rispetto alle quali si è scelto ormai da decenni di rimanere colpevolmente inerti e passivi.

 

La realtà è che il ritocco dell’aliquota del secondo scaglione dell’imposta personale (dal 35 per cento al 33 per cento per lo scaglione compreso fra 28 mila e 50 mila euro) è semplicemente un tassello ulteriore nel percorso di traduzione in atti normativi di quanto previsto dalla delega fiscale in corso di attuazione. Quest’ultima può piacere o non piacere, ma è solo nella sua prospettiva che può essere valutato quanto previsto dalla legge di Bilancio. Per inciso, la delega fiscale elaborata dal governo precedente l’attuale – cui prendevano parte molti di coloro che oggi si stracciano le vesti – prevedeva la riduzione dell’aliquota relativa allo scaglione intermedio (da 28 mila a 55 mila euro) proprio per evitare uno stacco eccessivo fra i trattamenti tributari di contribuenti con redditi relativamente vicini. La passata legislatura dovrebbe averci insegnato che la demagogia nuoce gravemente alla salute. Evidentemente la lezione non è bastata.

Di più su questi argomenti: