Una scena da “Quarto potere” di Orson Welles (Olycom)
Le mani sui media
Comprati e venduti. Ecco i nuovi padroni dei giornali
Alla faccia dell’intelligenza artificiale, i ricconi spendono ancora per accaparrarsi i vecchi mezzi d’informazione. Cartacei e non solo. Dal fondo Kkr alle mosse di Mediaset, fino al futuro di Repubblica. Dall’Italia alla Germania, dalla Francia all’America, nessuno sfugge a questa febbre che sembrava scomparsa come il vaiolo
Perché un armatore vuol possedere una stazione radiofonica e un quotidiano? Che se ne fa un costruttore edile di una tv? Un fondo di investimenti cosa c’entra con la stampa? E la moda? Perché mai un vecchio informatico si butta nel cinema? Non è forse morta la radio, uccisa dalla televisione, la quale è stata surclassata dai personal computer, fagocitati a loro volta dai telefonini, mentre i social hanno divorato l’intero mondo dei media e internet quello del cinema? Quanto ai libri, tutti li scrivono, nessuno li legge. I giornali sono carta che non si vende nemmeno con l’ecommerce. Non è così? E’ quello che ci è stato sempre detto e in apparenza è avvenuto davvero, un’innovazione dopo l’altra, una sequenza di distruzioni nel mondo dell’intrattenimento e dell’informazione forse ancor più che in tutti gli altri campi del lavoro e del vivere. E’ successo e succederà ancora, sarà sempre più l’intelligenza artificiale a cannibalizzare tutto il resto. Eppure… Già, eppure. Come mai c’è in giro tutto questo agitarsi con gran dispendio di miliardi e di energie per appropriarsi di tutto ciò che secondo gli ultimi persuasori occulti vale quanto stracci usati? Dall’Italia alla Germania, dalla Francia all’America, nessuno sfugge a questa febbre che sembrava scomparsa come il vaiolo.
E’ un mélange di antico, nuovo e futuribile come si confà a un’industria nata per mescolare cultura e politica, informazione e potere, letteratura e denaro. Honoré de Balzac ce l’aveva anche lui con i giornalisti accusati di essere peggiori dei politici perché non debbono rispondere a nessuno. Aveva torto, debbono rispondere a tanti, persino troppi giudici: i lettori, che spesso s’incrociano con gli elettori, gli editori, i padroni del vapore, i governanti, i magistrati, i sicofanti, le fonti delle notizie, l’etica professionale e le regole del gioco oltre che alla propria coscienza, ovviamente. I giornalisti finiscono in tribunale più degli stessi politici, i quali a loro volta fanno a gara per manipolarli e poi gettarli nel cestino. Ebbene, l’antico, in questo eterno crogiolo, è proprio quel che fa bollire la pentola, cioè l’opinione pubblica analizzata con maestria già un secolo fa da un maestro del miglior giornalismo nonché fine politologo: Walter Lippmann (il suo libro The Public Opinion fu pubblicato nel 1922 negli Stati Uniti). Il nuovo è la finanziarizzazione, sì, perché in questi ultimi anni i fondi (a cominciare da Alden Global Capital) si sono lanciati come sparvieri nello sport e nel mondo dei media in radicale trasformazione. Il futuribile è l’intelligenza artificiale, mentre la saturazione dei social media apre tutte le tre strade, quella vecchia, quella presente e quella futura. Ma non saltiamo subito alle conclusioni.
Figli e figliastri
I figli so’ piezz ’e core non solo per Mario Merola. E quando sei figlio dell’uomo più ricco del mondo quel pezzo si fa ancora più grande. Così Larry Ellison, uno dei pionieri dell’era digitale, il fondatore di Oracle, ha dato una spintarella a David quando nel 2010 ha deciso di buttarsi nel cinema con la sua società chiamata Skydance, che proprio grazie al papà ha raccolto 350 milioni di dollari salvando dal tracollo la storica Paramount Pictures. David ha esordito come produttore nel 2006 con un flop, un film ormai dimenticato sui piloti della prima guerra mondiale, dove si era ritagliato una parte (come suo padre è pilota e proprietario di aerei), ma facendo leva sulla Paramount ha firmato i successi di Mission Impossible o le saghe di Jack Ryan e Terminator. La settima arte è sempre stata la sua passione per la quale ha lasciato gli studi di economia. Adesso si è mangiato la Paramount e ha cominciato a scuotere l’albero delle monete d’oro, ha messo le mani sulla Cbs, una delle tre grandi reti televisive americane, e sta preparando un’offerta per Warner Bros Discovery che possiede HBO e CNN, mentre il paparino si prepara a entrare in TikTok grazie a Donald Trump.
Larry Ellison, uno dei pionieri dell’èra digitale, ha dato una spintarella al figlio David quando nel 2010 ha deciso di buttarsi nel cinema
Secondo la BBC è il più grande terremoto nei media americani dopo il ciclone Murdoch scoppiato nel 1976 con il New York Post e diventato quel che è diventato. Anche allora la guerra dei giornali e delle tv aveva (come sempre del resto) una forte carica politica, con Fox News il vecchio Rupert ha dato una spallata al mondo liberal anche se adesso con il Wall Street Journal fa la fronda a Trump. Questa volta, però, il sisma è ad un tempo sussultorio e ondulatorio, perché Ellison padre (ormai più che ottantenne) e figlio (più che quarantenne) possono diventare un predellino per The Donald ormai proiettato non solo verso il Nobel, ma verso un terzo mandato, difficile, ma non impossibile. Gli effetti si sono già visti. Dalla Paramount e dalla Cbs stanno uscendo alcune figure di spicco come John Dickerson anchorman di CBS News, mentre la senatrice Elizabeth Warren ha lanciato una campagna contro l’eventuale legame Paramount-Warner, che sta ricevendo consensi non solo tra i Democrat. Il big boss ha detto che vuole rivolgersi alla pancia centrista del paese, ma i segnali sono chiari: basta con il politicamente corretto, con le quote, con la “dittatura” dei neri e degli omosessuali, basta con gli scoop di 60 Minutes e 48 Hours la Cbs deve raccontare “la verità”.
David è figlio della terza moglie di Larry (ne avrà altre tre, l’ultima un anno fa con Jolin Zhu di origine cinese, alunna dell’università del Michigan) il cui cognome è quello dello zio che lo ha adottato. E’ nato infatti nel Bronx dalla relazione tra una ragazza ebrea di appena 19 anni, Florence Spellman, e un pilota italo-americano mentre la seconda guerra mondiale era ancora in corso. Siamo nel 1944, poveri in canna i due giovani decidono di non tenere il bambino, Florence chiede di adottarlo alla zia Lillian sposata con Luis Ellison (un ebreo russo venuto dalla Crimea che aveva cambiato il nome in Ellison per ricordare Ellis Island). Lawrence Joseph ha solo nove mesi e incontrerà la sua madre biologica soltanto a 48 anni. Larry studia, ma lascia presto l’università per l’informatica. Sono i ruggenti anni 70, e si butta nei data base. Ha successo con la sua società chiamata Oracle, ma nel 1990 rischia di fallire; Larry non si scoraggia anzi approfitta dei ritardi della IBM fino ad allora dominatore assoluto e si rilancia. Nel 1996 entra nel consiglio di amministrazione della Apple di Steve Jobs con il quale stringe un legame personale, nel 2009 acquista Sun Microsystems che produce sia software sia microprocessori e un anno dopo è già la stessa persona più ricca al mondo. Con l’irrompere dei giovanotti dei social media Ellison esce dai riflettori, ma non molla davvero. Adesso che la ruota gira e si torna dai giochi di ruolo alle macchine macina-dati, il potenziale di Oracle torna fondamentale, il vecchio Larry torna al centro della scena, diventa lui il più ricco al mondo, torna lui a dare le carte. Nel frattempo è passato anche per la Tesla di Elon Musk ed è sempre più scivolato nella rete della Paypal mafia. Se volesse, staccando un assegno potrebbe comprarsi Trump, ma gli basta essere nelle sue grazie mentre tesse la tela per sé e per il suo rampollo.
I fondi avvoltoi
Il mondo americano dei media non è mai stato tranquillo, ma adesso è in preda a un sussulto esistenziale. Dopo la concentrazione tra le maggiori testate a partire dai primi anni Duemila (Los Angeles Times dall’incerto futuro, il Boston Globe comprato dal New York Times, Chicago Tribune acquistato dal fondo Alden, The Washington Post preso da Jeff Bezos per citare quattro nomi dal gran blasone) tocca alla stampa locale che è sempre stata il vivaio del giornalismo, a ogni livello e misura del mestiere. La crisi va avanti da anni e anni, le cause sono molte e gli stessi esperti sono divisi: è colpa di internet, dei social, di quella che può essere chiamata “la trappola della separazione”, del disinteresse non solo per la politica, ma per la socialità. Fatto sta che la moria ha risparmiato davvero poche testate: secondo le stime almeno 70 milioni di americani vivono in luoghi senza giornali a cominciare da quelli locali.
Il sussulto esistenziale in America. Al Denver Post è stato licenziato un terzo dei dipendenti, lo stesso è accaduto al The East Bay Times
Da un po’ di tempo però sono arrivati i “fondi avvoltoi” che in molti casi andrebbero chiamati “angeli”. Il più importante si chiama Alden Global Capital, ha sede a New York e attraverso la sua società chiamata Digital First Media possiede un centinaio di giornali di provincia. Tutti sono tornati a vendere e fare profitti. Miracolo? No, taglio dei costi e dei posti di lavoro, un rapporto stretto tra carta stampa e digitale, vendita delle costose tipografie e così via. Al Denver Post è stato licenziato un terzo dei dipendenti, lo stesso è accaduto al The East Bay Times che esce nell’area di San Francisco e ha anche vinto un premio Pulitzer. Alden è un distruttore come dicono i suoi critici o un salvatore di giornali? Tutto comincia con Randall Duncan Smith finanziere di lungo corso (ha 85 anni) che ha fatto i soldi investendo nell’immobiliare poi nel 2007 ha fondato Alden decidendo di scommettere proprio sulla crisi della stampa minore. L’aggettivo in realtà è improprio visto che nella tela sono cadute testate di primaria importanza in grandi metropoli, come Chicago Tribune, Denver Post, Orlando Sentinel. Fin dall’inizio, il braccio operativo di Digital First Media è Heath Freeman che Smith assunse quando aveva 26 anni ed è stato quasi un secondo padre.
Il Cardinale e i burattinai
Dalla finanza allo sport e ora anche all’informazione, Gerard Joseph Cardinale, detto Gerry, nato nel 1967 a Filadelfia dove i nonni si erano insediati dopo aver lasciato il sud Italia, ha alle spalle studi in Filosofia, politica ed economia a Harvard e a Oxford nel 1991 dopo aver ottenuto una Rhodes Scholarship (come Bill Clinton che nel frattempo era in corsa per la Casa Bianca). Tornato negli States viene assunto dalla Goldman Sachs dove si occupa soprattutto di immobili e infrastrutture. Nel 2014, accumulata una non disprezzabile fortuna, si mette in proprio, fonda RedBird e punta sullo sport in America (i Boston Red Sox) e in Europa: in Francia con il Tolosa, in Italia con il Milan acquistato dal fondo Elliott (ha preso anche Paolo Scaroni e Zlatan Ibrahimovic come partner e consulenti). Poi tocca alla Formula 1 con la scuderia Alpine e certo non finirà qui. Il grande salto però è nei media: sport, spettacolo e informazione viaggiano spesso in parallelo. Cardinale si muove con David Ellison in Skydance e Paramount e per conto proprio in Gran Bretagna dove un anno fa ha preso All3Media, la maggiore società televisiva indipendente della quale Warner e Discovery si vogliono liberare. Sbarcato nella “Perfida Albione”, siccome l’appetito vien mangiando si compra anche il blasonato Daily Telegraph lo storico quotidiano fondato nel 1855 da sempre voce dei conservatori, rimasto finora uno degli ultimi giornali stampati in grande formato. Gli ultimi proprietari, i gemelli David e Frederick Barclay, quelli dell’hotel Ritz, che l’avevano acquistato nel 2004 non ce la facevano più a reggere debiti saliti a oltre un miliardo di sterline. Cardinale dovrebbe sborsare 500 milioni (circa 600 milioni di euro). Una nuova era, l’era dei fondi, è arrivata anche in Inghilterra e Paul Marshall, finanziere liberal-democratico passato ai conservatori perché favorevole alla Brexit, proprietario di uno dei maggiori hedge fund europei, si è regalato il settimanale Spectator per un centinaio di milioni.
E’ stato Rupert Murdoch a scuotere dalle fondamenta i media britannici, i giornali con il Times e il Sun, la tv con Sky; da allora ogni equilibrio è destinato a non durare. In Francia poi è scoppiata una vera rivoluzione, ça va sans dire. Le Monde oggi è di Xavier Niel (Iliad), Bernard Arnault con la sua LVMH ha preso il quotidiano economico Les Echos, Le Parisien e Aujourd’hui. Le Figaro è di Dassault (aerei dai Falcon ai Rafale). Tf1 la prima rete tv è posseduta dal costruttore Bouygues. Liberation, la voce del gauchisme è finita dopo vari tortuosi passaggi nel gruppo Altice del franco-israeliano Patrick Drahi che era diventato anche il principale azionista di British Telecom. Ma il vero “distruttore” è stato Vincent Bolloré: ha acquisito Vivendi primo gruppo euro-americano dei media e due anni fa si è impadronito del gruppo Lagardère la cui perla è la casa editrice Hachette, vincendo una sfida a distanza con Arnault. Il caos politico della Francia in pieno collasso del sistema che aveva retto la Quinta repubblica, è grasso che cola verso i patron dell’informazione pronti a diventare dei veri burattinai. Non è che l’inizio come si cantava nel maggio del fatidico 1968.
Barbari in Germania
Anche nella patria di Gutenberg dove la stampa è sempre rimasta più solida, affidabile e profittevole che in ogni altro paese europeo, sono arrivati capitali freschi e nuovi capitalisti. Protagonista è il KKR che quando era ancora Kohlberg Kravis Roberts (i tre cugini fondatori nel 1976) balzò alla ribalta con la più grande operazione finanziaria a debito (25 miliardi di dollari) per acquisire RJR Nabisco, il colosso del tabacco e dell’alimentare. Era il 1988, “Barbari alle porte” divenne un best seller e poi un film di successo. Il maggior gruppo editoriale tedesco fondato a Berlino nel 1946 dal giornalista Axel Springer e da suo padre Heinrich (possiede tra l’altro Die Welt e Bild, e le testate americane Politico e Business Insider) era rimasto sempre in famiglia (Axel, morto nel 1985, lo aveva lasciato alla moglie Friede) finché nel 2019 “i barbari” suonano ai cancelli, prendono quasi 3 miliardi di euro dal portafoglio e si portano a casa il 43,5 per cento dei titoli, la stessa quota di Friede la quale di lì a poco decide di trasferire una parte delle sue azioni a Mathias Döpfner il giornalista assunto nel 1998 e diventato amministratore delegato. E lui tratta con KKR la scissione del gruppo: un anno fa il fondo diventa azionista numero uno, mentre l’ad mantiene il controllo delle testate giornalistiche, l’operazione viene calcolata in 13,5 miliardi di euro, dieci in capo a KKR e gli altri al fondo Canada Pension Plan. La transazione è complessa e viene chiusa lo scorso aprile: il fondo prende il controllo della pubblicità e delle attività collegate, mentre tutta la parte giornalistica va alla società di Friede Springer e Mathias Döpfner, ripulita dai debiti e sempre più rivolta al mercato a stelle e strisce. L’85 per cento dei ricavi proviene dal digitale sul quale il gruppo ha puntato fortemente fin dall’inizio. Ma ormai l’intero mondo dei media tedeschi è in subbuglio, sia la stampa rimasta a lungo tra le più solide e di maggior qualità in Europa sia la televisione. E’ l’altro grande cambiamento, che ci porta in Italia.
In Germania cadono barriere politiche: il governo della Baviera ha dato il via libera all’acquisizione da parte di Mediaset della ProsiebenSat
Nell’agosto scorso sono cadute le ultime barriere, quelle politiche, e il governo della Baviera ha dato il via libera all’acquisizione da parte di Mediaset della ProsiebenSat seconda catena televisiva tedesca. L’offerta di Pier Silvio Berlusconi (8 euro per azione) aveva convinto i soci finanziari, poi è cominciato un braccio di ferro sulla governance con garanzie non solo sull’indipendenza, ma anche sulla “germanicità”. Un lungo e complicato tira e molla, ma la rete tedesca, oberata di debiti e in crisi di audience, aveva bisogno di una doppia frustata, finanziaria ed editoriale. Mediaset o meglio Mfe come ormai si chiama, ha messo sul piatto un progetto più ampio, di respiro europeo. Con ProsiebenSat il nuovo perimetro supererà i 6,8 miliardi di ricavi, 1,37 miliardi di margine operativo lordo, 2,1 miliardi di debito e oltre 12 mila dipendenti, per un bacino potenziale di 300 milioni di telespettatori in Germania, Italia, Spagna, Austria, Svizzera e probabilmente anche Portogallo. Quello che non poteva offrire il principale concorrente, il gruppo Ppf fondato dal miliardario ceco Petr Kellner e ormai di base in Olanda. E’ il piano per un network europeo tentato da Silvio Berlusconi e che Vincent Bolloré voleva creare con la sua Vivendi. E’ questa la prospettiva che si apre nel Vecchio Continente?
Una faccia, una razza
Nel calderone italiano c’è di tutto: crisi dei giornali locali, industriali e stampa, politica e tv. Ma forse la novità maggiore viene dal mare, sì perché per la prima volta nel campo dei media sono entrati degli armatori. Il primo e più importante è Gianluigi Aponte che nel luglio dello scorso anno ha acquistato Il Secolo XIX storico quotidiano genovese fondato nel 1886 e acquistato nel 1897 da Ferdinando Maria Perrone, proprietario dell’Ansaldo. Ora fa capo alla Blue Media controllata dalla holding svizzera Multi investment della famiglia Aponte, presieduta da Diego, il figlio del comandante Gianluigi, che con la sua Msc è numero uno al mondo nei trasporti marittimi di merci. Genova è uno snodo decisivo con il suo porto in via di ampliamento e con le opere viarie che dovrebbero collegare più velocemente via treno o via auto la città al nord Italia e al resto d’Europa. In questo senso si gioca una sfida strategica di portata internazionale. Possedere Il Secolo XIX ha un senso anche economico per gli Aponte. Ma che senso ha La Repubblica per l’armatore greco Kyriakou? A questo punto dobbiamo fare una pausa e tornare indietro.
Repubblica rischia di fare la fine della bella tanto ambita da restare a bocca asciutta? Il pretendente più quotato va cercato sul mar Egeo
La partita più lunga e anche più ricca di ricadute politiche si gioca oggi in Italia sulle spoglie del gruppo Gedi, passato nel 2019 da Carlo De Benedetti a John Elkann. Sembrava una mossa strategica per l’erede Agnelli che è anche il maggior azionista singolo dell’Economist, ma l’idea di un polo internazionale dei media è presto tramontata. Colpa della crisi editoriale acuta in Italia forse più altrove, colpa dei debiti, colpa dell’eccessiva politicizzazione, colpa della vittoria della destra? Sulle colpe si potrebbe scrivere un romanzo, fatto sta che il gruppo è diventato uno spezzatino, prima i giornali locali, poi l’Espresso (passato da Danilo Iervolino a Donato Ammaturo che tratta prodotti petroliferi con la sua Lukoil), Il Secolo XIX e adesso La Stampa, la Repubblica, le radio (Capital, Deejay e m2o). I quotidiani del nord est sono stati comprati da una cordata di imprenditori del Triveneto guidata da Enrico Marchi che con la Banca Finint e la Save (aeroporti di Venezia, Verona, Treviso, Brescia) è diventato senza dubbio l’uomo d’affari di riferimento in quell’area dopo la ritirata dei Marzotto e il trinceramento dei Benetton. La stessa coalizione confindustriale s’è fatta avanti anche per La Stampa, segno di un’ambizione che esce dallo spazio nordorientale occupato finora. E’ tutto aperto, probabilmente si capirà meglio di qui a fine anno. La Repubblica invece rischia di fare la fine della bella tanto ambita da restare a bocca asciutta? Da mesi (Il Foglio lo ha scritto già a luglio) il pretendente più quotato va cercato sul mar Egeo: è Theodore Kyriakou erede della famiglia di armatori tra le più potenti della Grecia.
Il nonno Xenophon, nato in Epiro, era ufficiale della marina che combatté contro italiani e tedeschi, allo scoppio della guerra civile si schierò con le formazioni filo-comuniste che vennero sconfitte nel 1949. Senofonte e la sua famiglia si rifugiarono in Polonia (il paese della moglie) poi in Brasile. Qui il primogenito Minos cominciò a commerciare in pietre preziose quando aveva solo 17 anni e fece fortuna. Poi si spostò negli Usa per lavorare per il compatriota Giorgio Laimos, armatore e uomo d’affari poliedrico. Minos studia alla Columbia University, ma anche in Francia e in Svizzera, impara oltre all’inglese anche italiano, spagnolo, polacco e russo. Non si occupa di giornali, ma controlla la carta. In patria diventa potente e influente tanto da presiedere il comitato per le olimpiadi di Atene nel 2004. Le sue petroliere partono da Singapore per portare il greggio in tutto il mondo. Stroncato da un attacco cardiaco nel 2017, lascia tutto ai suoi figli: Xenophon, Theodore e Athina nata da un precedente matrimonio. Mentre il primogenito si occupa delle navi il fratello si dedica ai media. Con le società K Group e Antenna Group costruisce uno dei maggiori conglomerati editoriali della Grecia, presente a Cipro, in Romania, Moldavia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca (nonché Australia e Stati Uniti). La sfera d’influenza si concentra sull’Europa centro-orientale, ma vuole allargarla all’Occidente europeo e agli Stati Uniti dove non fa mancare la propria presenza in vari consigli di amministrazione (l’Atlantic Council e la Georgetown University ad esempio). I suoi interessi s’allargano al Golfo Persico: è suo partner in affari il principe saudita, Mohammed bin Salman Al Saud che, tre anni fa, ha investito 225 milioni euro per comprare il 30 per cento di Antenna Group. Theodore, che si dice tenga sul comodino una foto di Donald Trump, non poteva mancare alla cena di gala offerta dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani per il presidente americano. Un osso duro, insomma, ma sembra che piaccia a Elkann alla ricerca di una figura dal respiro internazionale.
Giochi di potenti? Le roi s’amuse, il re si diverte, come nell’angosciante dramma di Victor Hugo dal quale Giuseppe Verdi ha tratto il Rigoletto? C’è dell’altro, c’è la transizione dei social media che dopo aver provocato sfracelli cominciano a declinare a favore dell’intelligenza artificiale un’innovazione ancor più distruttiva che non si alimenta con chiacchiericcio adolescenziale, ma con dati consistenti, per lo più accertati. Dati estratti dalla realtà, a sua volta raccontata in presa diretta e rappresentata dai vecchi mezzi d’informazione che stanno trovando una nuova giovinezza. L’IA riapre le porte al giornalismo e ai giornali siano essi di carta o digitali, all’informazione via radio, schermi televisivi, smart phone. Gli strumenti possono variare, la sostanza, l’informazione solida e certificata, resta anzi si moltiplica. Oggi la domanda chiave è where is the beef?, dove sta la ciccia. Ecco perché possedere una testata o un canale tv diventa di nuovo attraente e importante nel gioco degli scambi economici e politici. Nulla si crea e nulla si distrugge in natura, ma spesso anche nella storia.
Bastian contrario