Foto:Ansa.
lo stato dell'arte
Tutto quello che non avete mai osato chiedere quando dite "Pnrr"
L'Italia ha speso meno della metà dei fondi europei: un'occasione manca per un salto di qualità. Paletti e futuro. Inchiesta e più voci: parlano Barbara Boschetti, Carlo Altomonte, Diego Begnozzi e Gustavo Piga
A dieci mesi dalla scadenza del Pnrr l’Italia sta rallentando e non aumentando il ritmo della spesa dei fondi europei. Nell’audizione preliminare sulla manovra economica, Fabrizio Balassone, vice capo del dipartimento statistica della Banca d’Italia, ha spiegato che lo scorso aprile si stimava che le spese finanziate con le risorse del dispositivo di ripresa e resilienza ammontassero complessivamente al 5 per cento del pil nel biennio 2025-2026. Nelle stime di ottobre, tali spese sono state ridotte a poco meno di 3,5 punti percentuali. Per la fine di quest’anno, calcola Balassone, l’Italia avrà speso la metà delle risorse assegnate dall’Europa, 100 miliardi su 194. Resta meno di un anno per la restante metà. Ad arrivare, i soldi arrivano: l’Italia è l’unico paese europeo ad avere ottenuto il pagamento della settima rata, portando l’importo ricevuto a 140,4 miliardi, e ad avere già chiesto il pagamento dell’ottava, dimostrando una sorprendente velocità nel gestire tutta la procedura con Bruxelles. Poi, però, quando si tratta di spendere tutta la macchina diventa più lenta anche perché il governo Meloni ha apportato ben cinque modifiche al piano e a giugno ha chiesto la sesta alla Commissione europea. La Banca d’Italia avverte: “In considerazione dell’approssimarsi della scadenza del programma, è importante che quest’ultima revisione si accompagni a una significativa accelerazione della spesa”.
Secondo Barbara Boschetti, responsabile dell’Osservatorio sul Pnrr dell’Università Cattolica, “la strategia che sta guidando la realizzazione del Pnrr in Italia è concentrare le risorse in pochi centri di spesa pubblici o partecipate dallo stato. E questo per cercare di adeguare il piano europeo alla reale capacità di spesa del paese. Tante revisioni, però, hanno modificato la capacità del piano stesso di stimolare la crescita economica: il Pnrr sta performando neppure ai minimi previsti. Ma se non ci fossero questi investimenti saremmo già in stagnazione, anzi in recessione”. Secondo le stime di impatto sulla crescita che erano state previste dal governo di Mario Draghi, nel 2025 il pil sarebbe dovuto aumentare dell’1,7 per cento anche nello scenario più basso (del 2,4 per cento e del 3,1 per cento, negli scenari medio e alto, rispettivamente). Stime che non sono state modificate nelle revisioni successive richieste da Palazzo Chigi. Ma altro che piano Marshall: il risultato è deludente. In effetti, quest’anno l’economia italiana se tutto va bene crescerà dello 0,5 per cento, tasso che riflette un po’ la media storica del paese. Dov’è il valore aggiunto del Pnrr? Il Foglio lo ha chiesto ai quattro principali osservatori scientifici: oltre alla Cattolica, alle Università Bocconi e di Roma Tor Vergata (più Fondazione Promo Pa) e a The European House Ambrosetti.
“Il Pnrr è come un massaggio cardiaco fatto a un moribondo: qualche effetto meccanico pure lo suscita”, spiega l’economista Carlo Altomonte, a capo dell’osservatorio bocconiano. “L’impatto, comunque, vale non più di qualche decimale di pil e non c’è dubbio che senza questo piano saremmo in recessione, non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa”. Se, infatti, il pil dell’Eurozona aumenterà quest’anno poco più dell’1 per cento è grazie alla corsa della Spagna, altrimenti anche la crescita media europea sarebbe simile a quella italiana. Dunque, tutta Next Generation Eu dimostra di avere scarsa forza trainante sullo sviluppo economico anche se, come osserva Altomonte, “bisogna pur considerare che negli ultimi cinque anni abbiamo avuto una crisi energetica, sono scoppiate due guerre e sono arrivati i dazi americani che stanno pesando sulle esportazioni”. L’Italia, però, riceve più fondi di tutti gli altri paesi e in apparenza sembra che vada tutto bene. “La verità è che siamo bravi a farci dare i soldi dall’Europa ma poi non siamo altrettanto efficienti nella spesa e questo ha creato un imbuto nella parte finale – dice al Foglio Diego Begnozzi, coordinatore dell’Osservatorio Ambrosetti – Negli ultimi dieci-dodici mesi disponibili sarà cruciale accelerare l’attuazione poiché un rinvio delle scadenze appare ormai improbabile e il rischio di perdere parte dei fondi è concreto. Nonostante ciò, l’attenzione di media, opinione pubblica e istituzioni è oggi molto ridotta, quando invece servirebbe una consapevolezza collettiva dell’importanza della fase finale”.
Altomonte fa notare che, in realtà, le risorse spese ad oggi sono almeno 110 miliardi se si considerano anche gli anticipi su fatture che non sono state ancora contabilizzate nei dati ufficiali. Ma anche così restano da allocare entro il prossimo agosto un’ottantina di miliardi. “E’ un obiettivo ambizioso ma non impossibile – afferma - Il problema è piuttosto come si spendono i soldi. La Spagna è l’unico paese in Europa che è riuscito a imprimere un’accelerata al pil investendo in immigrazione qualificata e in tecnologia. Quello che noi stiamo facendo invece è trascurare la produttività per concentrarci su investimenti di carattere più strutturale che, in teoria, dovrebbero dare risultati nel lungo periodo”. Vuol dire che raccoglieremo i frutti nei prossimi dieci anni? “In teoria si, ma sull’effetto trasformativo che il Pnrr avrà sul paese non c’è certezza ”, conclude Altomonte.
Per Gustavo Piga, economista università di Tor Vergata e co presidente dell’Osservatorio sul Recovery Plan, “esiste ormai evidenza empirica che non solo senza il Pnrr la crescita dell’Italia sarebbe stata più bassa ma che il debito pubblico sarebbe stato più alto rispetto al pil. La ragione per cui nel documento programmatico finanziario, il governo insiste sulla necessità dell’avanzo primario è che sa bene che la Commissione europea può fermare il flusso dei fondi all’Italia in mancanza del rigore nei conti pubblici. Diciamo che si è creato un meccanismo che garantisce la continuazione dell’austerity tramite il Pnrr”. L’imbuto nella spesa, per Piga, sta nel funzionamento delle stazioni appaltanti delle opere. “In altri paesi, le stazioni appaltanti sono state potenziate con personale qualificato per garantirne la massima efficienza. Ma quando, a suo tempo, abbiamo segnalato tale necessità, ci hanno risposto che bastavano un migliaio di giovani con contratti triennali. Poi si è visto che così non funziona e che il piano europeo rischia di essere un’occasione mancata per un salto di qualità nella pubblica amministrazione che ovunque nel mondo rappresenta il motore dello sviluppo economico come lo è stato anche in Italia negli anni Sessanta e Settanta”.