(foto EPA)

Il Colloquio

Gli argentini preferiscono la motosega di Milei al ritorno del peronismo. Parla il politologo Malamud

Davide Mattone

Il voto di metà mandato ha confermato "el loco" come protagonista della politica argentina, forse più per paura del passato che per fede nel futuro. Come spiega al Foglio il politologo Andrés Malamud, “gli argentini hanno votato Milei sia per speranza, ma soprattutto per timore del ritorno del peronismo” 

E così il voto di metà mandato argentino ha confermato il presidente Javier Milei come protagonista della legislatura iniziata a fine 2023. La coalizione di Milei, La Libertad Avanza, ha infatti superato il 40 per cento dei consensi e ha distanziato con ampio margine il blocco peronista, che ha registrato uno dei suoi peggiori risultati dal ritorrno della democrazia nel 1983. È un risultato che va oltre le previsioni: solo un mese prima, nella provincia di Buenos Aires, il peronismo aveva ottenuto una vittoria chiara contro un Milei indebolito dalla crisi economica e da tensioni interne.

Quel successo era stato letto come la conferma che le province restavano fedeli all’identità storica del movimento peronista. Ma estendere quella lettura alle dinamiche politiche dell’intero paese è stata un’interpretazione forzata. “Questo è stato soprattutto un voto contro il passato”- racconta al Foglio Andrés Malamud, politologo argentino all’Università di Lisbona e tra i massimi esperti di politica argentina - “La paura di un peronismo impenitente è stata più forte dell’insoddisfazione economica. La speranza non è “morta”, ma non è stata il fattore determinante: la maggior parte delle persone ha votato Milei spinte dalla paura”. Allo stesso modo, a chi si chiede se questo risultato rifletta un genuino sostegno economico e ideologico alle sue riforme radicali, Malamud risponde: “La maggior parte degli argentini sta attraversando un periodo complicato, ma preferisce sopportare le difficoltà piuttosto che tornare all’inflazione e all’incertezza economica”.

Decisivo è stato anche il fronte internazionale, su cui Milei ha lavorato nelle settimane precedenti al voto.Il ruolo degli Stati Uniti ha garantito stabilità a Milei in un momento in cui il consenso popolare e parlamentare era basso”, spiega Malamud. Infatti, il 14 ottobre 2025, è stato concordato un bailout (soccorso, ndr) finanziario da 20 miliardi di dollari, con possibilità  di raddoppiarlo a 40, condizionato a riforme economiche e al taglio dei legami valutari con la Cina. Malamud osserva: “Ora è probabile che le aspettative positive rendano superfluo un salvataggio: la fiducia pubblica sostituirà il denaro americano”.

Perché, però, questa grande attenzione del presidente Trump verso l’Argentina? “Perché Milei è il suo unico alleato rilevante”, risponde Malamud. “Bukele in El Salvador, Noboa in Ecuador e Peña in Paraguay governano paesi piccoli. Gli altri grandi stati sono tutti di sinistra. Per esempio, in Venezuela, Trump sta esercitando la massima pressione per provocare divisioni interne e accelerare un cambio di regime. Un’invasione è fuori discussione, per ora, ma le truppe di fronte alla costa venezuelana continuano ad accumularsi”. 

Dunque, se nel 1946 l’orgoglio nazionale aveva spinto gli argentini a scegliere Perón contro l’influenza e l’ingerenza di Washington — il celebre “Braden o Perón” — oggi lo stesso sentimento sembra essersi rovesciato. E se queste elezioni non segnano la fine del peronismo, forse ne segnano la fine della sua funzione storica di interprete dell’orgoglio nazionale. “Le generazioni sono cambiate”, aggiunge il politologo argentino, “I giovani argentini oggi sono spinti da desideri materiali e pragmatici, non dall’anticolonialismo simbolico dei loro antenati, che ha però visto il paese fallire”.


Resta allora da capire se il voto rappresenti un vero mandato di conferma. oppure solo un capitale politico destinato a evaporare. “Tutt’e due” -  risponde Malamud - “Il risultato è un enorme ma fragile appoggio al presidente. L’opinione pubblica è volubile e i seggi del governo sono insufficienti per far passare le riforme”. 

Milei dispone ora di un capitale politico sufficiente a frenare le iniziative dell’opposizione, ma non abbastanza per governare da solo. Per far passare le leggi chiave, come già dato conto dal Foglio, gli servirà l’appoggio di almeno venticinque deputati e dodici senatori moderati o locali. “El loco” (il soprannome gli fu dato ai tempi della scuola) sarà ora costretto a trattare con i legislatori centristi e con i governatori provinciali, divenuti ormai i veri arbitri della politica nazionale.

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