Ansa

Il colloquio

Le presunte virtù dell'Italia nella gestione dei conti pubblici. Parla Monacelli (Bocconi)

Mariarosaria Marchesano

La promozione di parte di Morningstar Dbrs ha fatto felice il governo Meloni, ma ha prodotto un effetto minimo sul mercato dei titoli di stato: lo spread ruota sempre attorno a 80 punti base. “Il problema è che il paese cresce troppo poco", dice l'economista

Mentre la Francia viene declassata dall’agenzia di rating S&P l’Italia “torna in serie A”, come ha detto il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, riferendosi alla promozione da parte di Morningstar Dbrs. La decisione ha fatto felice il governo Meloni, ma ha prodotto un effetto minimo sul mercato dei titoli di stato. Lo spread ruota sempre intorno a 80 punti base (79 per la precisione con rendimenti dei Btp a 10 anni pari al 3,37 per cento) e, secondo le ultime stime di mercato, un’ulteriore riduzione si potrebbe verificare ma restando in un range  tra 70 e 80 punti base.

 

E’ come se la discesa del differenziale incontrasse un “floor”, come lo chiamano i tecnici, arduo da perforare perché lì sotto ci sono i fondamentali dell’Italia. “Il problema è che il paese cresce troppo poco – dice al Foglio l’economista dell’Università Bocconi Tommaso Monacelli – Senza il Pnrr il pil di quest’anno, invece che dello 0,5 per cento, sarebbe dello zero o dello 0,1 per cento, il che vuol dire un’economia completamente ferma, bloccata”. Anche considerando l’impatto del piano europeo di ripresa e resilienza, il tasso di sviluppo resta risicato, a differenza di paesi come la Spagna. Come mai? “La Spagna, tra le varie cose, ha integrato pienamente nel ciclo produttivo due milioni di immigrati e questo fa la differenza con l’Italia che non riesce ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione come non riesce a rimuovere le cause strutturali che ne ostacolano lo sviluppo”. 

 

Ma perché il contributo del Pnrr all’Italia è così contenuto? “Possiamo considerare il piano europeo un fallimento rispetto alla stazza di fondi che riceviamo, quasi 200 miliardi di euro. E la ragione è che le risorse non vengono investite abbastanza nei settori produttivi a maggior valore aggiunto”. Non le sembra di essere un po’ pessimista rispetto ai progressi riconosciuti all’Italia dalle agenzie di rating per la stabilità politica e la gestione dei conti pubblici? “Un’analisi più approfondita evidenzia crepe strutturali che non vengono affrontate: l’Italia è sostanzialmente ferma per la mancanza di riforme e di misure che ne possano aumentare la produttività. In più, restiamo un paese super indebitato e come tale esposto a choc di mercato: ci dobbiamo augurare che la situazione della Francia non precipiti generando una svendita dei suoi titoli di stato, gli Oat, da parte degli investitori internazionali perché il debito dell’Italia ne potrebbe subire un duro contraccolpo”. 

 

La stessa Morningstar Dbrs ha osservato che “la demografia sfavorevole dell’Italia, la bassa partecipazione femminile alla forza lavoro e la debole produttività del lavoro limitano la crescita potenziale”. Dunque, anche il percorso di miglioramento del merito di credito del paese incontra dei limiti. “Per capire come stanno le cose, dobbiamo guardare non tanto allo spread, che risente di fattori esterni  – prosegue Monacelli – ma al costo medio del nostro debito che resta superiore al tasso di crescita nominale dell’economia. E’ questa traiettoria che andrebbe invertita per assicurare la sostenibilità del debito italiano per i prossimi dieci anni. Se, come sta accadendo, i rendimenti dei Btp restano elevati, il bilancio dello stato continuerà a essere sotto stress. Paradossalmente, negli ultimi tre anni, è stata l’inflazione a dare una mano ai conti pubblici dell’Italia producendo un duplice effetto: ha gonfiato il valore del pil nominale e ha generato maggiori entrate tributarie grazie al meccanismo del fiscale drag”. In effetti, l’aumento dei prezzi è stato inglobato in alcune categorie di lavoratori grazie ai rinnovi contrattuali e questo ha fatto scattare scaglioni di Irpef più elevati. “Nei fatti, la classe media ha pagato buona parte degli aggiustamenti dei conti pubblici versando più tasse”. 

 

Il governo, però, ha promosso il taglio dell’irpef per alcune categorie. “Non c’è paragone tra quello che i contribuenti hanno versato e quello che riceveranno, non restituire il fiscal drag è stata una scelta politica ben precisa del governo che si è tenuto in tasca un jolly per tenere in equilibrio i conti. E’ stupefacente che il sindacato non abbia protestato”. Che cosa ne pensa del contributo chiesto alle banche per la manovra? “Si vedono più tasse, a vari livelli, e scarso efficientamento della spesa”. Non c’è una gestione virtuosa dei conti pubblici? “Diciamo, che è una gestione presunta virtuosa”. 

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