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Riforme sottotraccia

Bilancio pubblico e fisco, il riformismo del governo Meloni

Nicola Rossi

Dal ritorno alla disciplina del bilancio all’azzeramento del reddito di cittadinanza, misure sistematiche mostrano un cambiamento reale spesso trascurato dai commentatori. Ecco le riforme non percepite dall’opinione pubblica

Nell’iperuranio degli economisti, governi appena eletti varano riforme significative e politicamente costose nell’attesa di poterne raccogliere i frutti prima di tornare a sottoporsi al giudizio degli elettori. Nella realtà di tutti i giorni governi che facciano questa scelta sono l’eccezione assai più che non la regola. Contrariamente a quanto spesso si pensa, quello in carica fa forse parte delle eccezioni (e, per chiarezza, constatarlo non implica dare un giudizio di un qualche segno). 

 

Riportare il bilancio pubblico con i piedi per terra, bloccare l’emorragia provocata da recenti e irresponsabili scelte, restituirgli una disciplina spesso disprezzata in passato, porsi l’obbiettivo di ricostituire avanzi primari significativi, rivendicare il valore della prudenza sono tutti elementi di una riforma molto profonda (che ben pochi sembrano considerare tale): quella del rapporto fra i cittadini e lo Stato in una delle sue principali espressioni, il bilancio pubblico. Una riforma che molti avrebbero considerato politicamente proibitiva (se non in condizioni di emergenza e, di conseguenza, in termini strettamente transitori) e proponibile solo in termini carichi di significati negativi (l’austerità). Una riforma i cui frutti si manifestano ormai con una certa evidenza in termini di credibilità del paese, di stabilità del contesto macroeconomico e di riduzione degli oneri per interessi. Ancora, porsi l’obbiettivo di ridisegnare il sistema fiscale, definirne i caratteri essenziali non solo in termini dei principali parametri ma anche in termini di modalità di funzionamento tanto nei momenti fisiologici quanto in quelli patologici e tradurre tutto ciò in norme di delega dandosi un obbiettivo di legislatura è, anche questa, una riforma non marginale e politicamente non priva di rischi che sta traducendosi, in tempi coerenti con il suo carattere sistematico, in norme di legge non prive di ricadute per i contribuenti. 

 

E poi, azzerare il reddito di cittadinanza e con esso l’idea di un welfare centrato in misura pressoché esclusiva sul momento dell’assistenza è, anch’essa, una riforma di una certa importanza e che molti avrebbero considerato come politicamente arrischiata. Alcuni dei dati più recenti relativi al mercato del lavoro lasciano supporre che così potrebbe non essere. Infine, a distanza di trent’anni dalla sua improvvida soppressione, riproporre in termini attuali il credito d’imposta per il Mezzogiorno associandolo ad una dirompente modalità di abbattere i tempi delle procedure amministrative lascia intravedere che si possa mettere la parola fine alle deludenti politiche regionali dell’ultimo trentennio che hanno, con ogni probabilità, contribuito ad allontanare il Mezzogiorno dal resto del paese. Politiche cui non mancava una consolidata costituency che si è avuto il coraggio di sfidare apertamente.

 

Si possono formulare valutazioni critiche per ognuna di queste direzioni di riforma ma la sensazione è che continuando a sostenere che la cifra della attuale legislatura sia quella di una sostanziale immobilità e trascurando, al contrario, il filo rosso che lega sottotraccia le scelte di politica economica e sociale dell’ultimo triennio si perda la sostanza della questione e, in buona sostanza, si esprima un peculiare convincimento: le riforme sono tali solo se corrispondono, in quantità e qualità, alle convinzioni dell’osservatore (convinzioni che, peraltro, spesso non sono esplicitate). Ma è bene ricordare che potrebbe trattarsi di un convincimento non necessariamente vero (e non necessariamente condiviso dagli elettori). 

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