Emanuele Orsini (Ansa)

Verso Legge di Bilancio

La grande assente della manovra finanziaria: l'industria italiana

Luciano Capone

Il governo riesce a trovare i fondi per bloccare l'adeguamento dell'età pensionabile, ma non per chi produce. Come le imprese si fanno prendere in giro dal governo: Transizione 5.0, Ace, Ires, Ilva, Automotive e così via

 Lo stato preoccupante della manifattura italiana, oltre che dal calo inesorabile della produzione industriale, è dato dal fatto che sulla definizione della legge di Bilancio la Confindustria conti meno di Claudio Durigon. E’ chiaro, e di questo tutti ne sono consapevoli, che la prudenza sui conti pubblici sia una virtù. Ma se le poche risorse disponibili vengono utilizzate per evitare l’adeguamento di tre mesi dell’età pensionabile (costo: 1,5-2 miliardi di euro) come vuole il sottosegretario al Lavoro della Lega, invece che su misure per rilanciare l’industria, allora la questione è politica più che economica.


 Nell’incontro di ieri sulla manovra a Palazzo Chigi – presenti il sottosegretario Mantovano con i ministri Tajani, Giorgetti, Urso, Calderone e Foti – le imprese hanno chiesto una spinta sugli investimenti, ma dal ministro dell’Economia non è arrivata alcuna risposta. Era chiaro che sarebbe andata a finire così dal duplice forfait di Giorgetti alle assemblee di Confindustria e dalle critiche del presidente degli industriali Emanuele Orsini (“a noi non serve un ministro della copertina più bella d’Europa”). Non ci sarà una “manovra poderosa”, come ha chiesto Orsini, ma una legge di Bilancio da circa 16 miliardi, i cui cardini saranno il taglio dell’Irpef sul ceto medio (due punti in meno per la seconda aliquota), la proroga dei bonus per la natalità e dei bonus edilizi al 50 per cento. E molto probabilmente un intervento sulle pensioni, per evitare un aumento dell’età pensionabile che scatterebbe nell’anno elettorale 2027. 


Non c’è posto per il “Piano industriale straordinario per l’Italia” proposto da Confindustria da 8 miliardi di euro per tre anni, addirittura oltre la fine della legislatura. Ma il problema non sono solo le risorse, anche perché se fin dall’inizio  Confindustria avesse aiutato Giorgetti a chiudere prima e meglio il Superbonus anziché chiederne la proroga, ora ci sarebbero margini per una finanziaria più “poderosa”. 

Il problema vero è che la politica industriale del governo è una sequenza di fallimenti e insuccessi. Un caso è emblematico: Transizione 5.0. L’incentivo, finanziato con le risorse del RepowerUe con una dotazione di 6,3 miliardi, ha introdotto un credito d’imposta per gli investimenti che riducono il consumo energetico tra il 2024 e il 2025. Il ministero delle Imprese ci ha messo mezzo anno a emanare i decreti attuativi e un altro mezzo anno a semplificare le norme appena emanate: l’incentivo non ha funzionato, si è inceppato nella burocrazia e in un meccanismo molto diverso da quello automatico del precedente Transizione 4.0. Il ministro Adolfo Urso, pochi giorni fa, ha detto orgogliosamente al Senato che Transizione 5.0 “entro fine anno supererà la soglia dei 3 miliardi di euro di prenotazioni, raggiunta in appena 15 mesi” a differenza della versione 4.0 che “si era fermato a 2,2 miliardi”. Il punto è che il Piano Transizione 4.0 si è fermato a 2,2 miliardi perché quello era il tetto di spesa, raggiunto appena un giorno dopo l’apertura della piattaforma di prenotazione. Transizione 5.0, invece, ha una dotazione di 6,3 miliardi: vuol dire che al termine dei due anni, se tutto andrà secondo le previsioni di Urso, il tiraggio sarà stato inferiore alla metà. Ciò vuol dire che i circa 3,5 miliardi inutilizzati resteranno in Europa (come spiega Marco Leonardi al Foglio). Se si considera, come spiega il Centro studi di Confindustria e come mostra il Dpfp del governo, che tutta la crescita italiana nel 2025 è dovuta al Pnrr, non aver speso i 3,5 miliardi di fondi per Transizione 5.0 vuol dire qualche decimale in meno di pil.


 Un altro intervento problematico del governo Meloni è stato l’abrogazione dell’Ace, uno strumento introdotto dal governo Monti per il rafforzamento del capitale proprio delle imprese. Il problema non è solo la perdita di denari (5 miliardi annui), ma che le misure sostitutive introdotte come la maxideduzione sul costo del lavoro e la cosiddetta “Ires premiale” sono piene di criticità. Ripristinate l’Ace, chiedono gli industriali. Un po’ come per la richiesta di tornare a Transizione 4.0, l’industria italiana dice al governo di abolire i nuovi incentivi che ha introdotto perché oltre ad avere una dotazione finanziaria inferiore funzionano male.


 All’inadeguatezza del piano degli incentivi va aggiunto un contesto sempre più complicato per shock esterni o vecchi problemi che si sono incancreniti ma a cui il governo non ha dato risposta. L’industria automobilistica è in crisi profonda, con un crollo della produzione che nei primi nove mesi del 2025 è stato del 30 per cento (vedi articolo di Davide Mattone sul Foglio). La crisi di Stellantis non è certo responsabilità del governo, ma il ministro dell’Industria Adolfo Urso ha annunciato ripetutamente in questi anni come raggiungibile l’obiettivo di “un milione di auto prodotte in Italia”. Inizialmente avrebbe dovuto produrle Stellantis, poi Urso ha annunciato che era imminente lo sbarco dei cinesi in Italia. Non un produttore, ma addirittura tre o quattro – secondo quello che diceva il ministro – sgomitavano per venire a investire in Italia. Byd, Dongfeng, Chery... c’era solo l’imbarazzo della scelta.

Che fine hanno fatto? Sono tutti spariti, quando hanno capito che il governo voleva appioppargli stabilimenti come Termini Imerese o Flumeri. Nelle ultime settimane, la società cinese Byd ha addirittura lanciato una campagna pubblicitaria contro i farraginosi “incentivi statali” offrendo un bonus fino a 10 mila euro a carico dell’azienda. Insomma, i  produttori cinesi non solo non hanno fatto gli investimenti in Italia annunciati dal Mimit ma  pagano pagine pubblicitarie per criticare le politiche del governo.P er non parlare del dossier Ilva. Anche in questo caso, si tratta certamente di una crisi ereditata, ma il ministro Urso aveva annunciato come chiusa la vendita agli azeri di Baku Steel, che poi sono fuggiti come i cinesi.


Nel frattempo sulla manifattura italiana sono piombati anche i dazi di Donald Trump e la produzione industriale, caduta ad agosto del 2,7 per cento rispetto all’anno precedente, è tornata ai livelli del 2020 quando l’economia era paralizzata dal Covid.
Il presidente di Confindustria Orsini dall’inizio del suo mandato  ha  mostrato un’intesa con  la premier Meloni, che però non è servita a molto. Alla fine è più probabile che la spunterà Durigon, ottenendo risorse per anticipare l’età di pensionamento. D’altronde in Europa l’Italia sarà pure la seconda potenza manifatturiera ma resta sempre la prima potenza pensionistica. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali