
Giorgia Meloni (foto Ansa)
Verso la legge di Bilancio
Il governo annuncia il taglio dell'Irpef ma la pressione fiscale aumenta
Tra i principali provvedimenti del Documento programmatico di Bilancio c'è il taglio della seconda aliquota Irpef. Ma anzichè scendere, le tasse salgono al 42,8 per cento del pil (+1 punto rispetto a inizio legislatura)
Con l’approvazione in Consiglio dei ministri del Documento programmatico di bilancio (Dpb), il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha illustrato i principali provvedimenti della prossima legge di Bilancio light da 18 miliardi di euro. Ritorno al modello di Industria 4.0 per gli aiuti alle imprese dopo il fallimento di Transizione 5.0 (4 miliardi nel triennio), politiche per la famiglia (3,5 miliardi) e risorse per la sanità (7,5 miliardi). Ma la misura principale (9 miliardi) è la riduzione della seconda aliquota Irpef dal 35 al 33 per cento: “Anche la prossima legge di Bilancio proseguirà il percorso di riduzione della tassazione sui redditi da lavoro che il governo sta portando avanti da inizio legislatura”, dice la nota del Mef. C’è però un problema: mentre il governo sostiene di tagliare le tasse, la pressione fiscale aumenta. Era al 42,5 per cento del pil nel 2024, è al 42,8 per cento nel 2025.
E secondo le previsioni del Mef riportate nel Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp), la pressione fiscale è destinata a restare su questi livelli anche in futuro: 42,7 per cento nel 2026 e nel 2027. In pratica, Giorgia Meloni è arrivata a Palazzo Chigi nel 2022 con una pressione fiscale pari al 41,7 per cento e concluderà la legislatura nel 2027 con una pressione fiscale pari al 42,7 per cento. Un aumento di un punto di pil: da 20 a 25 miliardi di tasse in più ogni anno. In pratica, da qui al 2027 l’Italia avrà una pressione fiscale superiore a quella che c’era prima del Covid.
Come si spiega questo disallineamento tra i provvedimenti del governo, come la forte decontribuzione sui redditi da lavoro inferiori a 35 mila euro (poi ampliata fino a 40 mila), e la fetta di tributi sempre più grande che lo stato prende dalla torta del pil? La spiegazione che ha dato il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è che è merito del mercato del lavoro: “La pressione fiscale è in aumento non perché abbiamo aumentato le aliquote fiscali, ma perché è aumentata l’occupazione: l’aumento della massa di lavoratori che paga le imposte ha prodotto maggiori entrate”, ha detto recentemente in audizione. Ma lo stesso concetto era stato espresso in passato dalla premier Giorgia Meloni.
Il ragionamento di Giorgetti è fallace sotto diversi punti di vista. Il primo è che non c’è affatto un vincolo di necessità tra aumento dell’occupazione e aumento della pressione fiscale. Basti considerare che negli ultimi anni l’occupazione è aumentata in tutta l’Unione europea e, al contempo, la pressione fiscale è diminuita: secondo l’ultimo rapporto annuale sulla tassazione dell’Ue, nel 2023 le entrate fiscali nell’Ue-27 sono scese al 39 per cento del pil “il rapporto più basso dal 2011”. L’Italia, peraltro, è il paese europeo con il più basso tasso di occupazione (67 per cento) e tra quelli con la più elevata pressione fiscale (dopo Francia, Austria e Finlandia).
D’altronde, se è vero che maggiori occupati versano nuove tasse, è anche vero che producono pil che prima non c’era. Se però il rapporto fra tasse e pil (la pressione fiscale, appunto) aumenta, allora vuol dire che le tasse corrono più veloci del pil. E per fattori che sono tutt’altro che positivi. Da un lato è vero, come segnalano su Lavoce.info gli economisti Leonzio Rizzo e Massimo Bordignon, che i redditi da lavoro sono tassati più degli altri e quindi meccanicamente “quando crescono i salari cresce anche il pil, ma le entrate crescono ancora di più, producendo un inasprimento della pressione fiscale”. Però ciò implica che stiano crescendo poco i profitti e la produttività totale dei fattori (che è un po’ il lievito del pil).
Dall’altro lato, lavora a favore dell’erario un altro fattore che è il fiscal drag: la progressività del sistema fiscale, soprattutto in presenza di inflazione più elevata, fa in modo che una quota crescente del reddito vada a finire in tasse anche in assenza di un aumento del reddito reale. Questo fenomeno ha colpito i redditi medio-alti, quelli che non hanno beneficiato della decontribuzione, e ai quali il governo Meloni ora restituisce una frazione del maltolto riducendo la seconda aliquota Irpef. Ed è stato evidenziato chiaramente dall’ultimo rapporto Taxing Wages dell’Ocse, in cui si segnala che nel 2024 l’Italia è stato il paese Ocse che ha registrato il più forte incremento del cuneo fiscale (+1,61 punti) portando la pressione fiscale e contributiva al 47,1 per cento, proprio perché il salario medio è cresciuto del 4 per cento ma l’aliquota media è aumentata del 7,5 per cento.
Giorgetti e Meloni possono rivendicare di aver corretto i conti, ma non di aver abbassato la pressione fiscale. Anzi, se ha aggiustato i conti è proprio perché ha aumentato le tasse.