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Il Dato

Se l'Italia è indietro sui salari è perché la contrattazione non funziona

Marco Leonardi

Il divario con i salari pre Covid in Italia è di circa 8 punti percentuali. Perché frattura sindacale, salario minimo e "contratto maggiormente applicato" incidono negativamente sulla contrattazione nazionale

L’Italia potrà pure vantare una crescita post-pandemia migliore di altre grandi economie europee, ma sul terreno decisivo del potere d’acquisto resta il fanalino di coda. Mentre Francia, Germania, Spagna e perfino il Regno Unito hanno già recuperato il livello dei salari reali pre-Covid, da noi il divario è ancora di circa otto punti percentuali. Non stiamo parlando dei salari stagnanti degli ultimi 30 anni, ma di un crollo negli ultimi cinque. La media nasconde differenze importanti: l’industria è sotto di circa il 5 per cento, i servizi arrivano a un -10 per cento che riflette la debolezza strutturale di ampi comparti del terziario.


Il cuore del problema è nella contrattazione collettiva nazionale, che per trent’anni ha tenuto le retribuzioni in linea con l’inflazione, ma ha fallito l’appuntamento con il picco del 2022-23. I limiti erano noti: indice di riferimento parziale, troppe sigle, ritardi nei rinnovi. Ma la difesa dello status quo ha prevalso. Oggi, con i nuovi contratti appena firmati e, soprattutto, con le loro proiezioni triennali, è evidente che non ci sarà recupero né nei salari contrattuali né in quelli “di fatto”, comprensivi di straordinari e premi.


In questo scenario già allarmante irrompe la paradossale delega sul salario minimo approvata definitivamente in Senato. Nata da una proposta di legge delle opposizioni, è stata riscritta dalla maggioranza fino a spingere i promotori a ritirare la firma. La differenza non è solo formale: le opposizioni chiedevano un salario minimo legale accompagnato da una legge sulla rappresentanza sindacale; il governo ha trasformato il testo in un generico “trattamento economico complessivo minimo”, che somma paga base, indennità, welfare aziendale e bonus, e che dovrà rifarsi ai contratti collettivi maggiormente applicati in ciascun settore. 


Il criterio del “contratto maggiormente applicato” significa che sarà sufficiente adottare il contratto nazionale più diffuso – non necessariamente il migliore – per dichiararsi in regola. Un meccanismo che rischia di premiare la quantità, non la qualità, e che potrebbe addirittura incentivare una corsa al ribasso. Dietro formule apparentemente tecniche c’è una scelta politica chiara: non interferire in nessun modo con la contrattazione, delegando qualunque decisione alle parti sociali, nonostante l’evidente fallimento degli ultimi cinque anni che si è riflesso nel calo dei salari. 


Sul fondo, pesa anche la frattura sindacale: una parte del sindacato si muove in sintonia con il governo, un’altra è contraria per principio. Dai temi di merito – i sindacati si sono divisi sul Jobs act, sui voucher, sui contratti decentrati e ultimamente sulla legge sulla partecipazione e sul salario minimo legale –  si passa così a uno scontro di potere. Questa divisione è davvero una iattura perché un calo dei salari dell’8 per cento negli ultimi cinque anni – così evidente e così unico in Europa – richiede un ripensamento complessivo delle regole, non solo i minimi legali e la rappresentanza ma anche la frequenza dei contratti, gli indici, l’eliminazione dei ritardi nei rinnovi dove si accumulano le perdite maggiori. Un sistema pensato originariamente per archiviare la scala mobile e incentrato sull’industria deve essere ripensato per un’economia che è cambiata completamente. 


Certamente l’aggancio all’inflazione prevista nell’immediato futuro va mantenuto, ma la gran parte delle regole della contrattazione nazionale va rivisto per adeguarlo a un’economia dei servizi che è molto frammentata e non può difendersi dall’inflazione con la contrattazione decentrata. E non si dica che il problema è il fisco. Quello è un altro problema, certo rilevante, ma non per il tema in questione.  Se il sistema della contrattazione nazionale, in suoi vasti pezzi, non garantisce la tenuta rispetto all’inflazione, non puoi certo compensare con il fisco.


Il risultato è un paese che cresce un po’ ma si impoverisce nella vita quotidiana di chi lavora. Continuare a difendere l’attuale sistema di contrattazione e a rinviare la sua riforma per non perdere le posizioni acquisite significa accettare che quella perdita dell’8 per cento diventi strutturale. E’ questo lo status quo che il governo, e purtroppo anche parti del sindacato, sembrano intenzionati a preservare.
 

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