La nomina ufficiale domani

A Mediobanca è l'ora di Melzi: l'aristo-bocconiano (e milanese) tranquillo

Michele Masneri

Cinquant'anni, studi alla Bocconi, discendente di una celebre famiglia milanese, è l'amministratore delegato in pectore di piazzetta Cuccia 

Una delle conseguenze della conquista dei romani – via Monte dei Paschi - su Mediobanca, che desta  scalpore e scandalo all’ombra del Duomo, potrebbe essere paradossalmente il mettere un milanese che più milanese non si può sul trono di piazzetta Cuccia. Il candidato più probabile al ruolo di amministratore delegato, in attesa della conferma che arriverà domani, è infatti Alessandro Melzi d’Eril.

 

Cinquant’anni,  silenzioso e schivo, appartiene a una dynasty della più alta milanesitudine (con quel predicato esotico da Milano manzoniana). L’antenato più celebre è il settecentesco Francesco Melzi, figlio di Gaspare Melzi, conte di Magenta, e Marianna Teresa d’Eril, nobildonna spagnola. Politico di idee vagamente liberali, Napoleone lo nomina vicepresidente dell'effimera Repubblica italiana (1802-1805), e poi ministro della Giustizia del regno, e già che c'è gli fa pure l'upgrade araldico a duca di Lodi. Nelle memorie di Ralph Waldo Emerson l’imperatore francese sosteneva che “in Italia ci sono 18 milioni di uomini, ma solo due di valore, Dandolo e Melzi”. Un altro Francesco Melzi illustre del passato (1491–1568) era erede di Leonardo da Vinci e suo più fidato collaboratore.

 

Ma oggi il Melzi che ci interessa è capo dei fondi Anima, e prima a Clessidra. Il padre Guido, appassionato di ippica, è stato per anni  commissario straordinario dell’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine (UNIRE) mentre la madre Vittoria, per tutti “Toti” anzi “La Toti”, milanesemente, è fotografa oltre che anima artistica-anarchica della famiglia. I due dopo aver divorziato si sono risposati tra loro alla bella età di ottant’anni. La duplice anima (come i fondi), quella razionale e quella creativa,  si è perfettamente distribuita tra i due figli, il finanziere Alessandro (“Ale”) e il fratello Francesco, di sei anni più grande, produttore cinematografico internazionale e mondanone. Se Alessandro Melzi è riservato e appartato, Francesco è infatti anche un grande organizzatore di feste come quella che ogni inizio estate richiama registi, star e potenti vari a ballare scalzi nella tenuta maremmana del Mocajo (con mix di personaggi non banali: due anni fa, presenti Chiara Ferragni e il fondatore di Twitter Jack Dorsey; l’estate scorsa, Paolo Sorrentino e Luca Guadagnino). Di quest’ultimo Melzi ha prodotto una sfilza di film, a partire da quell’inno alla milanesità di fascia alta che era “Io sono l’amore”. Al momento invece è in sala con “Zuanì”, dedicato a Pascoli, e con  “La voce di Hind Rajab”, il film tunisino sulla bambina palestinese che ha vinto il Leone d’Argento a Venezia.

 

Rispetto all’estroso fratello, Alessandro Melzi è più tranquillo, sobrio, dunque molto cucciano anche nelle sue grisaglie sempre uguali e non sartoriali. Determinato e ossessionato dagli sprechi, è uno di quei milanesi che non vogliono apparire per niente al mondo; si racconta che dopo un’infanzia di vacanze a Celerina, da adulto ha scelto più anonime località valdostane. Ama la montagna ma soprattutto il lago come ruolo di riflessione, e poi il tennis. Zero vanità, molto metodico, ha  tre figli avuti da due matrimoni. Casa in zona Arco della Pace, gli amici sono rimasti quelli del liceo (lo scientifico Severi, dove era bravo ma non eccessivamente secchione). E poi, ovviamente, la Bocconi. E’, anche, l’unico della famiglia che ha fatto i soldi veri, dettaglio non secondario in una prosapia augusta ma mai troppo attaccata al denaro (il Melzi settecentesco più celebre della stirpe aveva dovuto essere mantenuto da uno zio a causa delle pericolanti finanze paterne. Mentre il nonno dell’attuale era professore di Storia dell’arte al liceo).


 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).