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l'analisi

Ristori ed extraprofitti, i vocaboli del dibattito malato sull'impresa

Guglielmo Barone

Due fatti recenti mostrano il rapporto distorto tra il nostro paese e il profitto: si chiedono aiuti pubblici per le perdite e imposte straordinarie sui guadagni. Ma il rischio, in positivo e in negativo, è parte integrante dell’attività d’impresa e non va neutralizzato

Due fatti recenti ci aiutano a ragionare sul rapporto malato che c’è tra il nostro paese, da un lato, e il profitto d’impresa dall’altro. Il primo fatto ha a che fare con i dazi trumpiani. Non appena il grido d’allarme si è fortificato abbastanza, da più parti è stata avanzata l’ipotesi di ristori per le imprese. Il principale argomento a favore è maldestramente rivestito da una patina sociale e suona più o meno così: la perdita di fatturato sul mercato statunitense causerà una contrazione dell’attività che, a sua volta, si tradurrà in un calo dell’occupazione; ne consegue che per tutelare i posti di lavoro occorre compensare le imprese con sussidi che permettano di mantenere invariati i livelli occupazionali. 


Non si può che essere in disaccordo. L’introduzione dei dazi fa semplicemente parte del normale rischio d’impresa, al pari delle altre centinaia di fattori esogeni che influenzano le fortune aziendali. La gestione di questo tipo di rischio è l’essenza del mestiere dell’imprenditore. I sussidi, inoltre, limiterebbero la naturale e benefica selezione delle imprese, che potrebbe spingere fuori dal mercato quelle meno produttive premiando le migliori (per esempio, più capaci di diversificare i mercati esteri di sbocco). Riguardo al tema della sacrosanta tutela dei lavoratori, essa non va perseguita sussidiando le imprese ma proteggendo i lavoratori con schemi di sostegno reddituale durante la disoccupazione e di formazione/riorientamento professionale. In sintesi, è facile immaginare usi alternativi migliori dei fondi necessari per i ristori. Né vale l’argomento che, in periodo Covid, l’intervento pubblico a sostegno delle imprese sia stato ampio e condiviso. In quel caso, ci trovavamo di fronte a un evento eccezionale e non prevedibile e le ragioni sanitarie imponevano un fortissimo calo della produzione (nel 2020 il pil è sceso di oltre l’8 per cento, un calo storicamente enorme). Nessuna di queste condizioni è presente nel caso delle tensioni commerciali odierne. 


Il secondo fatto, speculare al primo, riguarda il dibattito (ricorrente) sulla tassazione dei cosiddetti extraprofitti, che oggi sta riguardando il settore bancario ma che in passato ha interessato anche il comparto energetico. L’argomento di fondo è, appunto, speculare: c’è un evento esterno (il rialzo dei tassi di interesse, quello delle materie prime energetiche, etc.) che accresce i profitti di alcune imprese in modo considerato “eccessivo” e, pertanto, è necessario limare questo extra. Anche questo argomento è fallace. Come sopra, il rischio d’impresa, che può parimenti manifestarsi con choc positivi, non va eliminato. Profitti generosi in periodi favorevoli costituiscono una forma di assicurazione rispetto alle perdite tipiche dei tempi avversi (e non c’è alcuna ragione perché lo stato avochi a sé questa funzione assicurativa). Inoltre, la separazione tra profitto “equo” e profitto “eccessivo” è concettualmente quasi impossibile e una classe politica che volesse cimentarsi in questa operazione probabilmente finirebbe per scadere nei peggiori arbitri populisti e/o clientelari. L’unico criterio saldo di cui disponiamo per definire “eccessivo” il profitto è quello che guarda al funzionamento del mercato: in presenza di concentrazioni oligopolistiche o di altre situazioni ben note può avere senso l’intervento pubblico. E’ infatti questo il compito delle autorità antitrust e di regolamentazione ma si tratta di fattispecie che non c’entrano nulla con il dibattito attuale sulla tassazione degli extraprofitti. 


La politica economica non deve abolire per decreto profitti e perdite, mortificando gli animal spirits che sono il lievito della crescita nel lungo periodo. Ha un compito opposto, più difficile e meno redditizio in termini di consenso politico: eliminare i vincoli alla libera iniziativa imprenditoriale, dal funzionamento della giustizia civile, all’eccesso regolamentare, dall’istruzione alle infrastrutture, solo per citare alcuni dossier ben noti. 
 

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