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la regolamentazione
Il nuovo Codice della crisi d'impresa soffoca le startup innovative
Le recenti norme sulla gestione delle difficoltà aziendali impongono vincoli rigidi anche alle realtà emergenti, ignorandone le esigenze specifiche. Questo approccio rischia di bloccare iniziative promettenti, scoraggiando investimenti e limitando l’innovazione
Se c’è una cosa che dovremmo aver capito della vicenda economica unitaria italiana è che, se manca un retroterra culturale appropriato, anche le migliori architetture istituzionali non consentono il raggiungimento degli obbiettivi. Quando poi anche le istituzioni rispondono a logiche non adeguate allora il risultato – deludente – è garantito. E questo sembra essere, purtroppo, il caso dell’ambiente normativo in cui sono collocate le startup innovative. Da soli tre anni, l’Italia ha innovato significativamente le procedure concorsuali, introducendo meccanismi di allerta precoce per le imprese in difficoltà. Il tema è cruciale per le startup innovative che operano spesso in perdita e la cui stella polare è la crescita e non l’equilibrio finanziario di breve periodo. Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza del 2022 ha abrogato le disposizioni previgenti – che non sottoponevano le startup innovative alle ordinarie procedure fallimentari nei primi 5 anni di vita – distinguendo fra imprese “minori” e “maggiori” e prevedendo per queste ultime la liquidazione giudiziale (o, come si dice spesso, il “nuovo” fallimento). Come se non bastasse, il Codice ha previsto che tutte le società – startup incluse – debbano darsi “assetti organizzativi adeguati” a rilevare tempestivamente segnali di crisi. Detto in breve: procedure di controllo amministrativo-contabile e organi di controllo (sindaci/revisori). Le conseguenze sono facili da immaginare.
La vita delle startup innovative è caratterizzata da forte rischio finanziario, da più o meno rilevanti perdite iniziali, dalla necessità di riorientare se necessario, e in tempi brevi, il modello di business. Tutto ciò che non è proprio dell’impresa-tipo su cui è costruito il Codice (a conferma del fatto che il legislatore spesso e volentieri non ha una idea precisa dell’oggetto su cui legifera). Ne segue che in molte startup i segnali d’allarme previsti dal Codice non segnalano ciò che il Codice immagina ma solo la tendenza della startup innovativa a investire sul futuro. Ma ciò basta ad allontanare gli investitori e a interrompere anzitempo iniziative promettenti. Le startup nascono snelle e veloci. La loro governance è spesso informale e concreta. Chiedere loro assetti organizzativi formalmente ineccepibili e pesanti significa cambiarne la natura, frenarne lo slancio e imporre loro di dirottare risorse verso finalità che non sono la crescita. Come spesso accade in Italia, al timore degli abusi abbiamo preferito l’immobilità. Diversamente da quanto accade altrove, le nostre startup vengono spinte – dal Codice ma non solo da esso – a essere e rimanere “minori”. Vengono indotte a “professionalizzarsi” molto prima di quanto altrimenti avverrebbe e, quindi, a distrarre tempo e risorse dai loro obbiettivi.
Tendono ad abbandonare la logica del growth first per capitalizzarsi adeguatamente e/o raggiungere rapidamente il punto di pareggio. Per ridurre, cioè, i costi della crescita. Il risultato, paradossale, è quello di trasformare prematuramente idee di business ancora informi in mini-imprese fatte e finite ma a quel punto incapaci di stare sul mercato. Nei portafogli degli investitori ci sono centinaia (forse migliaia) di startup tenute in vita artificialmente ma ormai da liquidare e per i primi fondi di venture capital, avviati nel 2013-2014, si porrà il tema delle liquidazioni oltre che delle svalutazioni. Non esattamente la migliore pubblicità per il sistema Italia che dovrebbe, per tempo, porsi il problema di evitare che si faccia di tutta l’erba un fascio. Ovviamente, non è poi così difficile immaginare di “personalizzare” il Codice per le startup in maniera da riconoscerne la diversa natura. Ma è inutile girarci intorno: l’attuale normativa rischia – è un eufemismo - di raffreddare l’entusiasmo imprenditoriale, introducendo elementi di rischio legale e burocratico in un ambito che ha bisogno di agilità e sperimentazione. Di crescere rapidamente e, se del caso, di uscire dal mercato altrettanto rapidamente. Il dinamismo imprenditoriale poggia sulla cultura della “seconda opportunità” e accetta di pagarne il relativo costo in termini di tutela dei creditori. Gli eccessi regolatori, che in questo paese non sono l’eccezione, possono soffocare sul nascere l’attitudine al rischio che è l’essenza della mentalità delle startup e, in particolare, delle startup innovative. Non si tratta di rinunciare alla trasparenza e alla correttezza gestionale, ma di riconoscere che un sistema economico dinamico richiede un contesto normativo in cui procedere per tentativi ed errori non sia tollerato ma favorito e sollecitato.
